Forse è stato uno dei più grandi scrittori del 900. Certamente è stato quello che “ha tentato più strade” e che più si è interrogato sul romanzo e sul suo destino.
Segnaleremo i suoi più eclatanti “passaggi” da una forma di romanzo a un’altra.
Gli antenati
Italo Calvino (1923-1985) esordisce come scrittore realista o neorealista con Il sentiero dei nidi di ragno (romanzo ispirato alla Resistenza) e con Ultimo viene il corvo (racconti). Poi cambia strada: forse contribuisce a ciò l’avere curato per Einaudi l’edizione del Fiabe italiane (1956). La “svolta” si manifesta, all’inizio, col Visconte dimezzato (1951), poi col Barone rampante (1957), poi col Cavaliere inesistente (1959). I tre testi furono riuniti in un volume unico, I nostri antenati, quasi a volerne sottolineare l’ispirazione comune (1960).
Nei tre romanzi Calvino procede con delle “ipotesi fantastiche”: ad es. 1) Che cosa accadrebbe se un uomo fosse spaccato a metà da una cannonata? 2) Che cosa accadrebbe se un ragazzo di dodici anni, disgustato dall’idea di dover mangiare un piatto di lumache, si rifugiasse su un albero e si rifiutasse di scendere – fino a trascorrervi l’intera vita? E infine: 3) Che cosa accadrebbe se un paladino di Carlo Magno non avesse corpo e la sua armatura fosse vuota?
Nelle Lezioni americane (pubblicate postume) Calvino spiegherà che il suo “metodo” consiste nel cominciare con un’immagine e poi nel lasciarsi “portare dalle immagini” – come dalle onde del mare. Ciò almeno all’inizio, prima che incominci la intenzione di scrivere una storia e la scrittura.
Questo “secondo” Calvino, questo degli “antenati”, rimane legato alla letteratura tradizionale (la fiaba, il poema cavalleresco, il fantasy), oltre che ad una, più o meno consapevole, parodia del romanzo storico.
Ma ci avviciniamo ad una seconda svolta, sulla quale ci soffermeremo più a lungo.
Le Cosmicomiche e altre storie
Credo che la parte più originale del Calvino fantasticatore non siano gli “antenati” (1960), ma Le Cosmicomiche (1965), dodici racconti “irregolari” del tutto nuovi nel panorama delle letteratura fantastica. (Anche il paragone con la SF, la fantascienza, appare inadeguato).
Ogni racconto prende il via da una teoria scientifica (non necessariamente dimostrata): l’elemento oggettivo è una metamorfosi universale, un panta rei che radicalizza l’affermazione di Eraclito – tutto perennemente si trasforma; l’elemento soggettivo è un testimone che ha visto tutto e vuole parlare di tutto, ha un nome che si riesce a leggere ma è quasi impronunciabile: Qfwfq. Lui, Qfwfq, c’era alla nascita dell’Universo, all’allontanamento fra la Terra e la Luna, ha visto la deriva dei continenti, l’estinzione dei dinosauri, eccetera. Per molti anni Calvino ha seguito la pista delle Cosmicomiche: T con zero (1967), La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche (1968 e 1975) e perfino Cosmicomiche vecchie e nuove (1984). Non si è lasciato però “fagocitare” dal “filone cosmicomico”: nel 1972 ha già tentato un libro diverso, Le città invisibili.
Ne Le città invisibili c’è una “cornice” che forse è piuttosto un “filo conduttore”: Marco Polo, tornando dai suoi viaggi, fa un resoconto al Dublai Kan sulle remote città dell’Impero – che il Kan non ha mai visto e che non vedrà mai. (Una “radice” de Le città invisibili potrebbe essere – oltre Il Milione di Marco Polo – il racconto di Curzio Malaparte – “Città come me”). In ogni caso, le città hanno nomi di donna: Ottavia, Ersilia, Bauci, Leandra, Melania, e via continuando; e ogni città è diversa dalle altre, per posizione geografica, architettura, storia, carattere degli abitanti, eccetera. Le città diventano personaggi.
Ma i racconti sono veritieri? O sono frutto di immaginazione? E quale sarebbe il vero motore di queste invenzioni (se di invenzioni si tratta)? Che cosa cercano Marco Polo e il Kan? Per rispondere bisognerà porsi altre domande: ad es. Che cosa si cerca veramente quando si viaggia? Si vuole sfuggire alla morte (come l’uomo di Samarcanda) o all’usura della vita, dei giorni tutti uguali? Si vuole dimenticare un amore o trovare un amore? (Spesso però l’una cosa coincide con l’altra).
Alla fine il racconto di Marco Polo riconduce tutte le città ad una città – quella in cui si è nati – e tutte le altre diventano visioni, oasi nel deserto, che compaiono e scompaiono come i ricordi, e cioè come la vita.
Il castello dei destini incrociati
Sembra che Calvino adesso insegua il segreto dell’immaginazione. Dopo Le città invisibili è la volta de Il castello dei destini incrociati (1973). Anche in questo caso l’autore inserisce i suoi racconti in una “cornice”: in un castello stregato (e poi in una taverna altrettanto stregata) gli avventori non possono usare la voce e le parole per raccontare la propria storia: possono farlo però utilizzando le carte dei tarocchi; ecco la “Storia dell’ingrato punito”, la “Storia dell’alchimista che vendette l’anima”, “Storia della sposa dannata”, “Storia di un ladro di sepolcri”, “Storia dell’Orlando pazzo per amore” e ancora “Storia di Astolfo sulla luna”, eccetera. Bisogna sottolineare che le combinazioni delle carte sono molteplici, che spostare una carta vuol dire cambiare la storia, o che addirittura, la stessa carta può fare parte di una storia diversa.
Ma bastano davvero le immagini per raccontare una storia? Probabilmente no (neanche i fumetti ci riescono). E infatti alla successione delle carte – scelte da chi vuole raccontare la sua storia – si alternano le interpretazioni/riflessioni dell’io narrante. Nasce allora la differenza fra il procedimento di una chiromante e quello dello Scrittore. La chiromante si affida al caso e costruisce la sua storia sull’accostamento casuale. Lo Scrittore (probabilmente) costruisce la storia e poi sceglie le carte per illustrarla.
Ma è possibile che, all’atto pratico, le due strade, i due metodi, si incontrino. E infatti chi guida il processo? All’inizio le immagini, dirà Calvino nelle Lezioni americane, poi la concettualizzazione; e infine la parola, ovvero la scrittura. Il processo, insomma, è complesso e si svolge a vari livelli.
Se una notte d’inverno un viaggiatore e Palomar
Siamo arrivati così all’ultima metamorfosi di questo scrittore. È il “quarto Calvino”, quello di Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) e Palomar (1983). Due libri, del resto, con caratteristiche molto diverse. Nel primo romanzo un Lettore e una Lettrice cercano disperatamente la continuazione di un romanzo interrotto. Ma si trovano continuamente fra le mani e sotto gli occhi altri romanzi – tutti affascinanti e tutti interrotti sul più bello. Ma che significa questo gioco? È la fine del romanzo? Forse sì e forse no. Forse i romanzi interrotti sono, in effetti, un solo romanzo; il quale insegue – per così dire – la discontinuità della vita. Oppure i romanzi interrotti sono racconti completi e il “vero” romanzo è la vita. Cioè (naturalmente nella finzione), la vita è la storia del Lettore e della Lettrice, i quali alla fine – come in tutte le storie “all’antica” – si sposeranno. Dice infatti un personaggio (il settimo lettore del capitolo undicesimo) che in fondo i racconti non possono che finire in due modi: o con la continuità della vita (l’amore, il matrimonio) o con la conclusione di ogni vita (la morte).
Siamo così arrivati a Palomar.
Palomar è un personaggio che domina la scena dall’inizio alla fine; egli osserva le onde ad una ad una cercando di isolarle dal mare, osserva le stelle, l’universo, gli animali (gli amori delle tartarughe, il geco, gli storni), ma anche la vita degli uomini (al mercato, per strada eccetera) e sempre si sente inadeguato fino a cercare di liberarsi del suo io – per accorgersi che ciò è praticamente impossibile – almeno fino alla morte… Che cosa è il mondo, dunque, (non quello della Scienza o della Storia), ma quello che vediamo coi nostri occhi? Nient’altro che un pulviscolo di colori e di forme (che però esistono perché esiste l’io e si dissolvono con la sua scomparsa)? Palomar coglie solo la superficie delle cose (cioè i fenomeni): gli sfugge dunque il noumeno kantiano; gli sfugge il Segreto… Ma c’è, poi, questo Segreto? Se c’è ma è inaccessibile, che senso ha dire che c’è? L’empirismo di Palomar approda ad uno scetticismo radicale ma privo di serenità. Non è lo scetticismo dei Greci, quello di Pirrone di Elide, che voleva garantire la felicità. Lo scetticismo di Palomar conferma l’inquietudine per un mondo nel quale si sommano i misteri.
E ancora: da un punto di vista strutturale, in teoria si dovrebbero alternare descrizioni, narrazioni, e argomentazioni (le fondamentali funzioni d’uso del linguaggio), ma si può tranquillamente dire che in Palomar prevale la descrizione. In genere, nei romanzi, nei racconti, in tutte le opere di narrativa, la descrizione è funzionale alla narrazione e perciò sottoposta alla narrazione. Qui pare quasi sia il contrario. Si potrebbe dire che Calvino sia approdato al diario filosofico (in terza persona). Del resto egli aveva già dimostrato la sua propensione per il diario di viaggio e il reportage giornalistico: si veda Collezione di sabbia, una raccolta di articoli giornalistici che esce l’anno dopo Palomar e che si potrebbe sotto alcuni aspetti avvicinare a Palomar.
Post scriptum
Alla fine di questo articolo (del quale, del resto, non esagero l’importanza), voglio dichiarare la mia personale simpatia per un libro di racconti “realistici” o, forse meglio, “psicologici”: Gli amori difficili del 1970; dodici racconti che trovo perfetti. Ogni racconto è “un’avventura”, non necessariamente amorosa. Si va dalla “avventura del soldato”, che seduce o pensa di sedurre una vedova fin troppo compiacente, alla “avventura della bagnante” che, dopo aver perso in mare il costume, per vergogna e pudore non vuole chiedere aiuto e rischia di morire affogata. Tutti i racconti sono schegge di una potente vocazione al racconto breve; capaci di restituire in poche pagine il carattere e il destino d’un personaggio colto in un momento cruciale ed emblematico della sua esistenza.
Antonio Petrucci