Il gioco del tennis, sfida contro se stessi e contro le proprie incertezze
Chissà se in questi giorni mentre a tavola allunghiamo l’insalatiera ai nostri commensali non ci siamo tutti sentiti un po’ tennisti. Giusto ieri, mentre passavo la centrifuga per pulire l’insalata a mia madre, l’ho alzata al cielo mò di campione della coppa Davis.
Battute e scherzi a parte, stiamo scoprendo il tennis grazie alle imprese di Jannik Sinner e della squadra azzurra che dopo ben 47 anni hanno riportato in Italia l’insalatiera d’argento più prestigiosa del mondo.
In un periodo in cui il nostro sport nazionale, il calcio, sta annaspando (sfido chiunque nel ricordare i giocatori dell’Italia che hanno giocato l’ultima partita contro l’Ucraina), non sarà affatto difficile imparare a memoria la squadra azzurra che a Malaga si è imposta in semifinale contro la Serbia di Djokovic e in finale contro l’Australia: Arnaldi, Musetti, Sinner, Sonego, Bolelli e capitano non giocatore Volandri.
Il fascino della racchetta non lo scopriamo di certo ora: sport individuale per eccellenza, dal sapore altolocato un po’ perché in passato era riservato ai ricchi; un po’ per l’eleganza e l’educazione dei giocatori (basti pensare a Wimbledon dove da sempre si gioca vestiti di bianco); un po’ per il religioso silenzio che c’è in tribuna mentre si giocano le partite, il tennis non ha niente a che vedere con le altre discipline in cui attorno ad una gara regna il circo della confusione.
Oltre ad essere elegante e bello da vedere, il tennis è pure difficile da giocare. Senza avventurarsi nella gestualità tecnica e nell’abilità dell’uso della racchetta, un match a tennis è in primis una partita contro se stessi.
Concentrazione, determinazione, sicurezza di sè sono i requisiti richiesti.
Non si è solo contro l’avversario di turno, ma si gioca anche contro le proprie paure, le proprie incertezze e i propri errori. Chi sbaglia meno vince. È un gioco psicologico: non esite l’alibi dell’arbitro, del compagno di squadra che fa un errore o del campo impraticabile. Se sbagli è perché sei tu ad aver sbagliato e il peso di un errore grava il doppio.
Sinner e Djokovic nelle ultime due settimane si sono affrontati quattro volte. Se il numero uno del mondo ha triturato il nostro giocatore nelle ATP finals di Torino con una determinazione e una forza mentale propria del campione, la stessa cosa ha fatto Jannik annullando tre match points al serbo nella semifinale di Davis schiacciandolo dal punto di vista psicologico.
Più sei in fiducia, più ti entrano i colpi, più ti fai titubante e più palline finiscono fuori. È sempre lì che si torna, nella forza mentale che alberga in ognuno, nella capacità di saper controllare e razionalizzare le cose che si fanno.
E in questo lo sport, ancora di più quello individuale, rimane uno dei più grandi maestri perché per riuscire in certe imprese mette sempre alle prese con se stessi, in una sfida continua tra te e te stesso su tutto.
Forse la sfida da vincere per arrivare ad ogni livello e in ogni ambiente è proprio quella: accettare la sfida e provare a vincere contro se stessi.
Magari se lo si traducesse nella vita di tutti i giorni avremmo qualche assassino in meno in giro e qualche brava persona in più.