Gratuità, misericordia, comunione e pace. L’omelia per San Prospero

Pubblichiamo il testo dell’omelia che il vescovo Giacomo ha tenuto per la solennità del Patrono san Prospero.

«Vi lascio la pace, vi do la mia pace.
Non come la dà il mondo
io la do a voi» (Gv 14,27)

Celebriamo la solennità del nostro Santo Patrono san Prospero in un tempo di grandi prove, di incertezza e anche di smarrimento. Forse sono tornati i tempi terribili di cui la cronaca ci parla al tempo dell’episcopato e del servizio di San Prospero.
Gli eventi di guerra prima nell’est Europa e poi in Terra Santa, accanto a fatti recenti anche della cronaca italiana, hanno provocato un senso di impotenza e quasi di rassegnazione dinanzi al dilagare di una violenza che non risparmia nessuno. Centinaia di vittime innocenti travolte da una furia omicida che ci auguravamo appartenesse a un tempo ormai passato.

 

“Da dove viene tanto male?” è anche l’interrogativo che si poneva Sant’Agostino: “Quaerebam unde malum et non erat exitus?”: “Mi domandavo da dove venisse il male e non c’era risposta”. A volte penso a chi svolge un servizio di tutela del Bene pubblico: quante volte si sarà chiesto dinanzi alle sofferenze e alle violenze sui più deboli e indifesi, come è stato possibile che un fratello o una sorella diventasse carnefice spietato e inesorabile del suo simile? Da dove il male?
È ancora possibile dunque parlare di pace? E in che cosa consiste questa pace che chiediamo con tanta insistenza?
Gesù nel Vangelo di Giovanni, poco prima di essere consegnato nelle mani degli uomini, si rivolge ai discepoli con queste parole: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo io la do a voi” (Gv 14,27). Nell’annunciare la pace Gesù precisa immediatamente che si tratta della sua pace e non di quella del mondo.

In che cosa dunque differisce la pace di Cristo da quella del mondo? La pace donata da Cristo può esser ricevuta, donata e condivisa anche da chi vive in una prospettiva diversa? Può, in altre parole, interpellare anche chi non crede in Lui? È una pace che può essere approvata e difesa da ogni uomo di buona volontà, qualunque sia il suo credo e le sue convinzioni più profonde? Qual è la pace di Cristo e qual è quella del mondo?

Forse vale la pena soffermarci su che cosa sia realmente la pace. A volte noi confessiamo che siamo in pace con noi stessi e quando affermiamo questo in fondo diciamo che siamo in sintonia con quei valori che risiedono nella nostra coscienza e che ispirano le nostre azioni. La pace di cui parliamo, in fondo, è quella nella quale pensiero e sentimento sono orientati verso un medesimo obiettivo da conseguire. Tuttavia, questo non significa che ciò che chiamiamo pace sia di per se stesso un bene in sé. Infatti, io posso sentirmi in pace quando elimino tutto ciò che può impedirmi di conseguire un bene per me, ad esempio un avanzamento di carriera, usando metodi non corretti o addirittura disonesti. E una volta conseguito l’obiettivo, mi sento in pace e l’eliminazione dell’avversario o concorrente è considerato un effetto collaterale, pur spiacevole, ma che mi consente di perseguire quello che ritengo essere un bene per me.

È celebre la frase di Tacito, posta sulle labbra di un generale che, ostile all’esercito romano che avanzava inesorabile, esclama: “Ubi solititudinem faciunt, pacem appelant” (Dove fanno la solitudine, il deserto, la chiamano pace). A volte diciamo che siamo in pace quando riusciamo a ottenere che altri, che potevano mettere in crisi il raggiungimento del nostro obiettivo, siano resi innocui: la pace sarebbe dunque la conseguenza dell’eliminazione dell’avversario.

Ma una simile prospettiva non è estranea nemmeno agli apostoli: quando Gesù si dirige “decisamente” verso Gerusalemme, deve attraversare una città di Samaritani che gli impediscono il passaggio e due discepoli, Giacomo e Giovanni, dicono: “Signore, vuoi che facciamo una preghiera e scenda un fuoco che consumi questa città?”. Gesù si volta verso di loro e li rimprovera (cfr. Lc 9,53-55). Quindi è possibile che questa mentalità mondana nella quale il conseguimento della tua pace è legato all’eliminazione del concorrente e dell’avversario si annidi anche all’interno della comunità cristiana. È una piaga che non risparmia nemmeno i discepoli di Cristo. Anche i discepoli pensano che la via più efficace di risolvere i conflitti sia l’eliminazione del nemico. Anche nella Chiesa di Cristo si può fare strada una mentalità mondana.

Qual è dunque la pace di Cristo?
Quando Gesù risorto appare ai discepoli nel giorno della resurrezione per due volte risuona quella parola: “la pace è con voi” e mentre annuncia questa pace ai suoi discepoli ostende le sue mani e il costato (cfr. Gv 20,19.21).
La pace che Gesù effonde sui discepoli impauriti è quella che scaturisce dal dono di sé, da quell’amore che si è fatto dono totale di sé, e che nella lavanda dei piedi ha avuto il suo annuncio profetico (Gv 13).
Possiamo dire che Gesù provoca un capovolgimento radicale di prospettiva perché Colui che è Signore e Maestro si cinge con un asciugatoio e lava i piedi dei suoi discepoli, provocando anche la reazione scomposta di Pietro.

La pace che il Signore ci dona intende disattivare alla radice l’inimicizia e la contrapposizione. Non è solamente combattere l’ingiustizia, che è pur necessario per salvaguardare e difendere i diritti dei più deboli, ma è il riconoscimento che la sola giustizia non basta se non subentra la carità, cioè l’accogliere l’altro come fratello e sorella. È quanto ci ricorda l’apostolo Paolo nella seconda lettura: l’eucarestia è il luogo dove si crea una mentalità nuova, in cui si percepisce che l’omissione del bene che possiamo fare è già minare una relazione di pace, è già far venire meno un bene che può portare il tuo fratello o sorella a rimanere a digiuno o nell’indigenza. È l’omissione del bene: noi a volte ci diciamo, forse facendo un esame di coscienza: “non abbiamo fatto del male e nessuno”, che è già qualcosa. Ma non basta, se vogliamo creare una mentalità di pace e di concordia.

San Giacomo nella sua lettera va alla radice dei conflitti e delle guerre e con domande incalzanti si rivolge alla sua comunità dicendo: “Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni” (Gc 4,1-3). Con parole diverse, San Giacomo indica che la causa scatenante il conflitto è l’individualismo che erge il proprio bisogno e il proprio bene a idolo a cui tutto sacrificare. Questa mentalità che esalta il proprio bene, quello che mi interessa senza tener conto dell’altro è la ragione di tanto male e indifferenza!
È qui dunque la radice del male, che può annidarsi nel cuore dell’uomo, come dice Gesù nel Vangelo: “Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adulteri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza” (Mc 7,20-22).

San Prospero, tutte le foto del Pontificale

In questi mesi, sia a livello civile, sia religioso, ci siamo mobilitati con iniziative di preghiera e di solidarietà con le popolazioni colpite dalla guerra. Abbiamo collaborato, istituzioni civili e religiose, per lenire la sofferenza di questi fratelli e sorelle investiti da questa immane tragedia, ma non basta.
Perché questi eventi nella loro tragicità interpellano e rimbalzano nella nostra vita quotidiana. Impongono a me e a ciascuno di noi un serio esame di coscienza su come noi viviamo nella quotidianità le nostre relazioni familiari, sociali, sul nostro modo di leggere e concepire l’impegno politico come servizio autentico al bene comune e su come rapportarci con quelle persone che la pensano in modo diverso da noi, non soltanto nella famiglia, non soltanto nella Chiesa, ma nella politica, nella società, nei luoghi di lavoro. Quanta violenza verbale contamina i nostri dibattiti politici ed ecclesiali, anche nel nostro tempo, a volte anche nella nostra città! Una piaga che non risparmia, come dicevo, nemmeno la vita delle nostre comunità cristiane.

Avvertiamo in altre parole che non è sufficiente promuovere convegni, raduni e veglie, se non comprendiamo che una vera e autentica cultura della pace nasce dalla purificazione del nostro cuore, del mio cuore, che interpella me prima di interpellare gli altri, che implica la capacità di guarire dal nostro modo di guardarci, non come potenziali concorrenti o avversari, ma come fratelli e sorelle:

“La città dell’uomo non è promossa solo da rapporti di diritti e doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione” (Benedetto XVI Caritas In Veritate, n. 6).

Su questo si fonda la città dell’uomo! Abbiamo bisogno di sentire e di testimoniare questi valori di gratuità, di misericordia e di comunione. Di gratuità: com’è difficile oggi la gratuità: e se ci capita che qualcuno sia veramente gentile, di incontrare qualcuno in un luogo di lavoro che ci fa un bel sorriso a quaranta carati, uno si domanda “che cosa c’è sotto?” “Sospetta gli altri come te stesso” sembra essere il mantra. Se tu manifesti un interesse per me, se mi accogli con un sorriso, se c’è una disponibilità incondizionata, certamente mi chiederai il pegno. Siamo sempre in assetto di guerra, perché “non si sa mai”. “Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio” e siamo tutti blindati. Il principio di gratuità: pensate se fosse immesso nei nostri rapporti di lavoro, tante volte animati dal profitto, dal guadagno. Quanto sono contaminate le nostre relazioni, anche lavorative.

Il principio della misericordia: in questi mesi sono andato saltuariamente a visitare i nostri fratelli e le nostre sorelle che sono in carcere e ringrazio il Signore che ci sono presbiteri, ma anche laici, uomini e donne che compiono un servizio prezioso, che ci ricordano – anche là dove l’uomo può macchiarsi di azioni malvage, che provocano sofferenza inaudita su altri – che, come diceva un apostolo della carità del nostro tempo, don Oreste Benzi, “l’uomo non è il suo peccato”. Abbiamo bisogno di guarire lo sguardo, anche nei confronti di questi fratelli e sorelle che vivono in questa condizione, certo con la loro responsabilità, ma che non sono il loro peccato! E abbiamo bisogno di comunione, che non è la semplice solidarietà, è qualcosa di più, perché avverti che tu sei responsabile delle persone che vivono al tuo fianco, che il Signore ci chiederà non tanto del male fatto, ma del tanto bene omesso, che potevamo fare e non abbiamo fatto.

Gratuità, misericordia, comunione: queste realtà non sono estranee alla nostra città e alla nostra Chiesa. È vero che l’animo reggiano può apparire immediatamente un po’ squadrato, ma dentro questa scorza – ho l’esperienza di questi mesi – c’è un cuore grande, generoso. Dobbiamo far emergere sempre più dalla nostra storia, dalla storia di questa città, dalla storia di questa Chiesa, questa generosità, questo bene che nel corso dei secoli è stato seminato con abbondanza da uomini e donne!

Proprio ieri 23 novembre abbiamo festeggiato 150 anni dall’inizio del Pio Istituto Artigianelli, cito questo perché è proprio in concomitanza con la solennità, ma in questi mesi quante inaugurazioni, quante memorie di azioni e di iniziative nelle quali la Chiesa e l’istituzione civile si sono trovati concordi nel promuovere la gratuità, la misericordia e la comunione. È questo di cui abbiamo bisogno! Perché non ha alcuna efficacia impegnarci per la pace in altri paesi se nella nostra città, nella nostra terra, dalla pianura alla montagna, non siamo – per usare un’espressione cara a Papa Francesco – degli “artigiani della pace”. Ma essere artigiani della pace significa non soltanto non essere di ostacolo ai nostri fratelli, ma immettere nella nostra realtà relazionale questa dimensione di gratuità, di misericordia e di comunione.

Abbiamo dunque bisogno di riscoprire quello che Pascal – di cui ricorre il quarto centenario della nascita – diceva con una frase diventata celebre: “Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”. È il tempo nel quale tutti, credenti e non, dobbiamo far emergere le ragioni del cuore grande. Perché ciò che rimane della nostra vita non sono i conti in banca, che lasceremo, ma l’unica cosa che portiamo, che dà senso e significato alla nostra vita, è la carità che abbiamo seminato.

Questa è dunque la pace di Cristo: non soltanto l’assenza del conflitto, non soltanto una maggiore giustizia, ma la carità che ci rende fratelli e sorelle e compagni di viaggio premurosi e attenti. È su questa pace che credenti e non sono chiamati oggi più che mai ad unire le forze, affinché in questa tenebra fitta di morte che ci avvolge possa risplendere una luce di vita e di speranza! Che la nostra terra, la nostra città, la nostra Diocesi possano essere sempre più un luogo di consolazione per tanti fratelli, uomini e donne, piagati dal dolore e dalla sofferenza!

+ Giacomo Morandi

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