Lascia che la verità sia il pregiudizio (seconda parte)

Battaglia di Saipan, 1944. © The Heirs of W. Eugene Smith, Center for Creative Photography, Tucson, Arizona

Nella puntata del mese scorso abbiamo lasciato il fotografo Eugene Smith deciso a “fotografare la storia”, insomma voleva portare le sue macchine fotografiche sui campi della seconda guerra mondiale e riprendiamo da qui.

Il 16 luglio del 1943 in casa Smith suona il telefono: William Ziff, editore di Flying, rivista dedicata all’aviazione, gli propone un posto come corrispondente su una portaerei della Marina americana nel Pacifico: quello del fotografo è un “sì” gridato! In ottobre è a bordo della Independence con poco bagaglio, ma nella borsa a mano piazza quattro macchine fotografiche: una Zeiss Ikoflex, una Rollei ed una Kodak Medalist, tutte formato 120; otto scatti per pellicola, la Kodak, da dodici le altre due e la più veloce Contax II, formato 135, con rulli da 36 pose, ma soprattutto con la possibilità di cambiare gli obiettivi. Si era portato dietro anche una Graflex a lastre, ma rimane subito distrutta e non raccontò mai come.

Mi sono soffermato sui suoi apparecchi perché ognuno di noi tenga presente la differenza con i reporter di oggi, questi hanno a disposizione, con le moderne macchine digitali, un numero di scatti quasi illimitato. Questo imponeva al fotografo, allora, di pensare molto prima di scattare, perché non c’era il ritornello: “Tanto poi la cancello”, oppure “dopo la sistemo con Photoshop”. Per dirla tutta qualche intervento in fase di stampa del negativo si poteva fare anche allora, ma sicuramente non tanto come oggi.

L’entusiasmo iniziale ben presto lascia il posto alla monotonia. Smith si lamenta di scattare foto noiose di aerei che decollano o atterrano sul ponte, mitraglieri in azione o particolari della vita a bordo, come l’inquietante fotografia scattata nella cappella della nave: un crocifisso in primo piano e sullo sfondo una serie di bandierine giapponesi, ognuna delle quali significava certo un aereo nemico abbattuto, ma anche un pilota morto.

Servizio funebre sul ponte della portaerei Bunker Hill, febbraio 1944, © The Heirs of W. Eugene Smith, Center for Creative Photography, Tucson, Arizona

Chiede con insistenza di salire a bordo di un velivolo durante i combattimenti, ma gli dicono che è troppo pericoloso. In novembre passa su un’altra portaerei, la Bunker Hill, e finalmente sale a bordo di un Curtiss SB2C Helldiver, un aerosilurante.
Nelle lettere a casa parla poco delle sue paure, molto dei suoi mal di testa e del suo amore per la moglie Carmen e i figli Marissa e Patrick, quest’ultimo nato poco prima della sua partenza per il Pacifico.

Dopo quattro mesi di corrispondenza di guerra non si era minimamente avvicinato al turpe e violento combattimento di terra; le fotografie definite da Bruce Downes, nella mostra del 1946 al Camera Club di New York, “vere, terribili, strazianti con in sé una bellezza commovente”, insomma le sue grandi immagini di guerra dovevano ancora essere scattate. Nell’aprile del 1944 Smith torna in licenza a casa, lascia l’editrice Ziff-Davis, interessata solo a fotografie di aerei, ritenute spesso da lui inutili, bussa alla porta del settimanale Life e in maggio ritorna nel Pacifico assegnato come fotoreporter all’esercito. Ha passato alcuni giorni felici con la famiglia, ma prima di ripartire litiga violentemente con la moglie: era stato dichiarato, dopo una visita medica, non idoneo al combattimento, ma lui decide di andare con le truppe di terra, dove il pericolo è maggiore, ma dove pensa di trovare immagini che possano veramente raccontare quello che lui intende per guerra vera.

Nel giugno del 1944 fotografa l’invasione di Saipan: davanti alle lenti dei suoi obiettivi accadono violenze tanto crude e atroci che neanche la sua più fervida immaginazione poteva prevedere e lo sconvolgono. Lui, tuttavia, cerca quelle immagini, quelle che esprimano il suo disgusto per ciò che gli accade davanti, insomma per la guerra. Scriverà a casa: “Non si può spingere una nazione a uccidere e ad assassinare, senza turbare le menti, voglio che le mie fotografie contengano un messaggio contro l’avidità, la stupidità e le intolleranze che provocano queste guerre che spazzano molte vite.”

Battaglia di Saipan, 1944. © The Heirs of W. Eugene Smith, Center for Creative Photography, Tucson, Arizona

Nella ‘Battle of the Caves’, la battaglia delle grotte, a Saipan nel giugno del 1944, Smith scatta diverse immagini che diventeranno vere icone, ma una in particolare racconta come voglia mostrare le contraddizioni della guerra. Nello stesso rullo tre scatti, uno di seguito all’altro: un soldato solleva da sotto le macerie un bambino giapponese nudo e in fin di vita, lo tiene con dolcezza fra le mani, con un gesto di tenera pietà che interroga, mentre un altro sta sullo sfondo con la sigaretta in bocca e il fucile tra le mani.

Smith fotografa i mutilati dell’ospedale di Leyte nelle Filippine, gli operai al lavoro a Pearl Harbor, l’invasione di Okinawa dove, finita l’occupazione: Life gli pubblica un servizio con un titolo che, oggi, fa rabbrividire: “Okinawa: tranne che per i giapponesi, è un posto molto piacevole”.

Soldato che prega, battaglia per Rocky Crags, Okinawa, 1945, © The Heirs of W. Eugene Smith, Center for Creative Photography, Tucson, Arizona

Nel giugno del 1945 sempre Life gli consiglia caldamente di seguire più da vicino la vita di un soldato e Smith sceglie Terry Moore, un fuciliere del 184° reggimento di fanteria. Alle quattro del mattino del 22 maggio del 1945 i due iniziano la marcia verso l’interno dell’isola. Lo fotografa sdraiato sull’erba con il fucile puntato, rannicchiato a terra con l’elmetto fra le mani, si sofferma sugli stivali ricoperti di fango, ma anche mentre si accende una sigaretta o quando mangia da una scatola di fagioli.
Quello stesso pomeriggio sono, sotto il fuoco dei soldati giapponesi, al riparo di un’altura. Smith si alza in piedi con la Contax all’occhio per scattare un’immagine di Terry con sullo sfondo le esplosioni dei colpi di mortaio. L’esplosione arriva, ma lui è troppo vicino e una pioggia di schegge metalliche lo investe in pieno. Si ritrova in ospedale con la mascella ed il palato distrutti, con l’indice della mano sinistra, con cui stava mettendo a fuoco, quasi staccato, la macchina fotografica distrutta ma che però gli ha salvato gli occhi.

Torna a casa a metà giugno del 1945; le ferite gli causano un dolore sopito solo dalla morfina. Gli orrori della guerra vissuti lo portano a pensare seriamente di abbandonare la fotografia. Con la famiglia, e grazie ai soldi di sua madre Nettie, compra una casa a Tuckahoe, sobborgo di New York, e riesce anche a mantenere il suo studio con la camera oscura in centro. Passa un anno molto difficile fino all’aprile del 1946 quando, con il successo della mostra al Camera Club di New York, dove espone 200 fotografie scattate durante la seconda guerra mondiale, esplode nuovamente in lui la voglia di tornare a fotografare. Nel periodo di convalescenza a Tuckahoe scatta a Patrick e Juanita (la figlia concepita durante la sua licenza del 1944) la fotografia che intitolerà “Walk in the paradise Garden”.

– Walk to Paradise Garden, 1946, © The Heirs of W. Eugene Smith, Center for Creative Photography, Tucson, Arizona

Il come realizzò quell’immagine val la pena di raccontarla perché dice tanto di lui. In diverse interviste cambiò spesso il suo racconto, che, con passare degli anni, diventò sempre più drammatico e grottesco. Di seguito riporto quello pubblicato da Time il 18 febbraio 1971 in cui dice che erano due anni che non teneva una macchina fotografica in mano, ma in realtà erano meno di uno: “Lottai per dare alla mano sinistra lacerata la forza e il controllo che le mancavano, mi sforzai ancora contorcendo tutto il mio corpo che faceva goffamente da leva; il dolore, la tensione, la paura e quello strano annaspare mi lasciarono tremante, sudato e irrigidito preso da un crampo… Si avvicinarono (Patrick e Juanita) ad una radura dove gli alberi formavano quasi un arco, e percepii con precisione le linee che componevano la scena e la brillante pioggia di luce che filtrando nello spiazzo si spandeva sul sentiero di fronte a noi. Pat vide qualcosa nella radura, afferrò la mano di Juanita e corsero entrambi in avanti… e quando i bambini entrarono nello spazio dell’inquadratura, che già avevo previsto, premetti lo scatto per trattenere l’immagine di quell’istante, per fissare sulla pellicola quella frazione di tempo che si disperdeva nell’eternità”.
Questo per la cronaca, ma voglio aggiungere che è spesso abitudine dei fotoreporter enfatizzare il momento in cui hanno realizzato un determinato scatto. Questo, ovviamente, non aggiunge niente al valore dell’immagine in se stessa, ma la colpa è della nostra spesso inutile vanità.

Sulla bellezza giudicate un po’ voi:, la fotografia fu rifiutata da Life perché dicevano che i bambini erano orientati fuori dalla fotografia. Nel 1947 la pubblicò U.S. Camera, nel 1955 Steichen la scelse come emblema della mostra “The family of Man”. La Ford la usò per una campagna pubblicitaria, l’Information Service ci fece la copertina del libro “What is Democracy”. Una coppia di Pasadena disse che i due bambini erano i loro, un giudice dell’Illinois ne scolpì una copia sulla pietra tombale della moglie. Una nota di cronaca: fu necessario rifare il negativo perché il rullo originale andò perso e oggi, se ve la volete appendere al muro, la fotografia, nel formato 28×35 è in vendita sul sito di Magnum Photos per 2.700 euro.

Poco prima Simith aveva quasi deciso di smetterla con la fotografia, ma la ripresa dei rapporti con Life, a malincuore e fra un litigio e l’altro, portarono alla realizzazione di quei saggi fotografici che hanno fatto la storia della fotografia: “Dottore di campagna” (Country Doctor) del 1948, “Villaggio spagnolo” (Spanish Village) del 1950 e “Infermiera ostetrica” (Nurse Midwife) del 1951.
Nel 1954, Life commissiona a Smith un servizio sul premio Nobel per la pace Albert Schweitzer. Il fotografo arriva a Lambarené, in Gabon, con un misto di riguardo e discrezione, ma anche con una punta di rivalità e gelosia. Ritorna a New York dopo diversi mesi e per le insistenze del settimanale che continuamente gli telegrafava per avere il servizio. Il 15 novembre 1954, venne pubblicato: venticinque fotografie. Smith ne aveva stampate 250 e previsto una impaginazione che venne bocciata. Questo servizio, che rimane uno straordinario esempio di come si realizzano, non rese giustizia alla verità così come voleva Eugene Smith. Il fotografo, vista l’impaginazione, rassegnò le dimissioni prima che il settimanale venisse stampato.

Termino qui la seconda parte, per darvi la possibilità di riflettere sui fatti: un fotografo, all’apice del successo, lascia la redazione del più importante settimanale illustrato del mondo, perché non è d’accordo su come vengono usate le sue immagini. E questo dovrebbe perlomeno interrogare parecchi di noi fotoreporter.

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