Viene definita come una moderna forma di body art, in realtà la pratica del tatuaggio affonda le radici nella storia dell’uomo, così come attestato dal corpo congelato e perfettamente conservato di un uomo vissuto circa 5300 anni fa, ritrovato nel 1991 in Trentino Alto Adige, in prossimità del confine italo-austriaco, ai piedi del ghiacciaio del Similaun a 3213 di altitudine.
La Mummia del Similaun, più conosciuta con il nome di Otzi, vissuto nell’età del rame, è il primo essere umano tatuato di cui si abbia conoscenza. Sulla sua pelle sono stati contati 61 tatuaggi ottenuti con piccole incisioni, poi ricoperte con carbone vegetale.
Si tratta di semplici punti, linee e crocette realizzati in corrispondenza della parte bassa della colonna vertebrale, dietro un ginocchio e su una caviglia. Dagli esami radiologici effettuati durante le fasi di studio del corpo è emerso che a quei punti corrispondono diverse forme di artrosi. Si pensa quindi che le incisioni siano state praticate a scopo terapeutico per lenire i dolori, anticipando persino l’agopuntura, praticata da millenni in Cina e in Asia, che individua punti di pressione su cui agire come metodo di cura.
Anche l’antico popolo egiziano era solito utilizzare la pratica del tatuaggio. Al British Museum sono conservate due antichissime mummie egizie che presentano numerosi tatuaggi, molto raffinati, raffiguranti immagini di animali, simboli e motivi geometrici realizzati con un inchiostro ricavato da una sorta di fuliggine. Numerose pitture funerarie dell’antico Egitto ritraggono poi figure di danzatrici e sacerdotesse di Hathor, dea madre universale e patrona della vita e della morte, i cui corpi sono adornati di tatuaggi, espressione del loro stato sociale o, in taluni casi, testimonianza della conoscenza di riti magici.
Più a nord, le popolazioni celtiche, che adoravano come divinità alcuni animali, sulla pelle si tatuavano figure di tori, cinghiali, gatti, uccelli e pesci in segno di devozione. In particolare, le donne celtiche stanziate nella Penisola Iberica si tatuavano il volto nel tentativo di somigliare alla dea Civetta.
Gli antichi romani, invece, credevano fermamente nella purezza del corpo umano, pertanto il tatuaggio era vietato e praticato come sfregio soltanto su criminali e condannati ai quali veniva marchiata la fronte. Nacque così la moda della frangia il cui scopo era coprire l’ignobile segno permanente. Per primi a riprendere l’usanza del tatuaggio furono i soldati romani che scendevano in battaglia contro i nemici britannici, i quali usavano questa pratica come segno distintivo di forza e coraggio.
I primi cristiani usavano tatuarsi la croce sulla fronte. Nel 787 d.C. Papa Adriano proibì l’uso del tatuaggio, ma in seguito i crociati lo riabilitarono, portando sul corpo il marchio della Croce di Gerusalemme.
Nel continente africano il tatuaggio era un rito ampiamente diffuso, una vera e propria cerimonia che presupponeva una preparazione sia fisica che mentale.
In Nord Africa e in Sud Africa i tatuaggi tribali erano considerati difese magiche contro spiriti maligni e malattie. Per questa ragione i Berberi del Nord Africa e le donne beduine ancora oggi sono solite tatuarsi varie parti del volto e, a volte, intorno al petto e all’ombelico.
In Oriente, il paese di riferimento per questa usanza è il Giappone dove la pratica del tatuaggio, sia a scopo estetico che terapeutico, risale al V secolo a.C.
Gli affascinanti tatuaggi orientali nascono come forma di ribellione a una legge dell’Antico Giappone che vietava alle classi sociali più basse di indossare kimoni decorati. Gli appartenenti a questi ranghi portavano, nascosti sotto ai vestiti, tatuaggi colorati che coprivano tutto il corpo, dal collo ai gomiti e fino alle ginocchia. Nel 1870 il governo giapponese dichiarò illegale questa pratica ritenendola sovversiva, ma non riuscì mai a contrastarla definitivamente. Gli uomini della mafia giapponese, la Yakuza, adottarono l’abitudine di tatuarsi il corpo con disegni come la carpa koi, che rappresenta la forza e la perseveranza.
Tra le popolazioni delle Isole del Centro e Sud Pacifico il tatuaggio aveva un’importantissima valenza culturale e tradizionale: alle ragazze di Tahiti venivano tatuate le natiche di nero nel momento in cui avveniva il passaggio all’età adulta. Gli uomini hawaiani usavano tatuarsi tre punti sulla lingua nei momenti di particolare sofferenza.
In Borneo gli indigeni si tatuavano un occhio all’interno del palmo delle mani come simbolo di guida spirituale e sciamanica che li avrebbe assistiti durante il passaggio nell’aldilà, mentre nelle Isole Samoa era diffusa l’usanza, chiamata “pe’a”, di tatuarsi tutto il corpo in cinque giorni come prova di coraggio e forza interiore.
In Nuova Zelanda i Maori firmavano i trattati disegnando la riproduzione dei loro “moko”, il tatuaggio facciale personalizzato. Ancora oggi i “moko” identificano la famiglia a cui appartiene il loro portatore.
Nel corso dei secoli la pratica del tatuaggio venne nuovamente ripresa nei paesi occidentali. Negli anni Venti del Novecento il tatuaggio è considerato un fenomeno da circo, dove persone tatuate da capo a piedi vengono presentate come attrazioni per il pubblico, mentre per oltre cinquant’anni il tatuaggio viene utilizzato per indicare minoranze etniche, marinai e malavitosi, indice di arretratezza e disordine mentale.
Soltanto nei più recenti anni Settanta e Ottanta il tatuaggio è riscoperto come espressione di ribellione contro la società conformista. I movimenti punk, i gruppi di motociclisti, gli appartenenti ad alcuni movimenti giovanili iniziano a tatuarsi come forma di protesta individuale in reazione alla cultura conservatrice e moralista dell’epoca.
Oggi il tatuaggio è una pratica complessa da analizzare; tanti e diversi sono i significati che assume a seconda di coloro che lo portano. Mentre per alcuni rappresenta un puro ornamento estetico utilizzato per abbellire il corpo, per altri è un segno identificativo di archetipi, sogni, emozioni e ricordi impressi per sempre sul corpo e quindi nella storia della propria vita. Quasi una forma di espressione artistica distintiva, riempita di significati come vero e proprio linguaggio introspettivo agito per simboli.