60 anni fa – il 9 ottobre 1963 – avveniva la tremenda catastrofe del Vajont (Belluno) che provocò la morte di circa 2000 persone. Tra i primi soccorritori figura un reggiano: Pietro Rapaggi, all’epoca ventottenne tenente della Compagnia “Genio” della Brigata Alpina Cadore con sede a Belluno, accorsa subito sul luogo del disastro. La “Cadore” fu decorata con medaglia d’oro al valor civile.
A distanza di mezzo secolo Pietro Rapaggi, che aveva raggiunto il grado di divisione, che è stato presidente della sezione reggiana dell’Associazione Alpini e promotore della memorabile adunata nazionale delle Penne Nere a Reggio nel 1997, così ricordava quella tragedia e l’opera di soccorso portata assieme ai suoi Alpini. Il gen. Rapaggi si è spento il 23 luglio 2018. Riproponiamo il suo ricordo
Il 9 ottobre 1963 è una data che ricordo con particolare vivezza, tanto che appare trascorsa da due giorni; invece sono passati cinquanta anni, ma i ricordi legati alla tragedia del Vajont sono vivi e scolpiti e ancora capaci di emozionare e commuovere.
Tenente dell’Arma del Genio, facevo servizio in Belluno nella Brigata Alpina “Cadore” e non avevo esperienza di impiego in calamità particolarmente impegnative e gravose, quando la sera del 9 ottobre 1963 viene dato improvvisamente l’ordine alla mia compagnia di intervento per il soccorso alla popolazione, per quanto era successo alla diga del Vajont.
Già sentire che vi era stato un disastro a Longarone ci aveva allarmato, ben conoscendo la sua posizione di fronte alla sbocco del torrente Vajont nel Piave e della critica situazione dell’alta diga che sbarrandone la stretta valle, forma un lago lungo e profondo sovrastato da monti alti e dalla ripide pendici.
Inoltre la compagnia, che aveva in quella zona del greto del Piave trovato il posto idoneo all’impiego del materiale da ponte scomponibile Bailey, proprio in quei giorni l’aveva portato in quell’area dove era previsto il suo montaggio per addestramento e aveva lasciato di guardia due genieri alpini.
Alle dieci e quaranta circa della sera una frana, con un fronte di circa due chilometri, si stacca dal monte Toc e precipita nel lago.
Ciò provoca una enorme onda che si abbatte sugli abitati di Erto e Casso, poi, superata la diga precipita in fondovalle colpendo Castellavazzo e distruggendo Longarone, causando la morte di quasi duemila persone.
Meno di mezz’ora dopo viene dato l’allarme alla Brigata “Cadore”, che ordina l’intervento di diversi suoi reparti, primo fra tutti, alla compagnia del Genio, che per le sue dotazione le caratteristiche dell’impiego è la più idonea a far fronte alla particolare esigenza.
Allertata, la compagnia in poco tempo è pronta, arriva a Ponte delle Alpi e poco più in là deve procedere a piedi lasciando sul posto i mezzi e le attrezzature più pesanti.
All’incerta luce dei pochi fari disponibili alimentati da batterie portatili, arriva sul luogo del disastro che noi stentiamo a riconoscere per le devastazioni e le macerie che ne alterano l’aspetto.
Troviamo dei Vigili del Fuoco già intenti a soccorrere i sopravvissuti e a comporre alcune salme. Li affianchiamo e loro ci dicono di rimuovere le macerie e accertare che non ci siano persone ancora in vita o altri corpi da recuperare.
L’attività dura tutta la notte; al mattino, veniamo impiegati per il ripristino della viabilità e delle possibilità di accesso alle zone ancora isolate.
L’impiego dei nostri uomini sul momento desta qualche scontento, perché sembra loro di secondaria importanza, ma poi si rendono conto che la nostra specializzazione e i nostri mezzi ci rendono particolarmente utili in quella attività, che agevola l’intervento degli altri reparti e li mette in grado di muoversi più speditamente e di compiere il proprio lavoro.
In diverse occasioni veniamo chiamati ad aiutare nel soccorrere i sopravvissuti e a recuperare salme o materiale e mezzi pesanti di particolare importanza.
Ogni intervento e attività era necessario e importante, ma i più toccanti e appaganti sono stati quelli fatti in collaborazione con il ten. col. medico Salvatore Riggi, al quale abbiamo potuto dare sostegno e aiuto nel recupero e trasporto dei feriti, che lui poi con tanta passione e carità cristiana assisteva e curava.
E’ stato commovente ritrovare ancora vivo e piangente un bimbetto, che semisepolto dai sassi e dalla ghiaia agitava le braccine per dire: “sono qui, aiutatemi”.
L’intervento, impegnativo, doloroso e duro, è stato anche particolarmente denso di umanità e commozione, di intima soddisfazione, per gli insegnamenti che ne sono scaturiti, per la intensa gioia che ha provocato e per la ricchezze delle esperienze che ha lasciato.
Nella foto: il gen. Rapaggi e alcune fasi dei soccorsi portati dagli Alpini