Omelia dell’Arcivescovo Giacomo Morandi
Chiusura fase diocesana della causa per la beatificazione di don Dino Torreggiani
27 settembre 2023 – Cattedrale di Reggio Emilia
La pagina della prima lettera ai Corinzi che abbiamo ascoltato chiude il capitolo primo di questa importante lettera che Paolo indirizza ad una comunità cristiana che è lacerata, una comunità cristiana che vive al suo interno divisioni e contrapposizioni. E l’apostolo, nel primo capitolo, mostra e pone davanti a questa comunità la Sapienza della Croce, che scompagina i criteri dell’uomo pagano il quale chiede Sapienza, e che mette in crisi anche l’uomo che vive immerso nella Parola di Dio, nella legge di Dio, tanto da suscitare in lui scandalo.
Al termine di questa riflessione Paolo – come abbiamo ascoltato – ci dice come il Signore agisce nella storia. Qual è il criterio che si può intravedere dell’azione di Dio nella storia? Dio sceglie ed elegge i suoi collaboratori in un modo originale, ma con una costante: «Dio sceglie ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti e Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato» (1Cor 1,27-28). La domanda è: “perché?”. Paolo risponde «Affinché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio» (1Cor 1,29). La piccolezza, dunque, l’insignificanza secondo i parametri del mondo, che sono parametri di potenza, sapienza mondana e di appariscenza. Secondo questi schemi, l’uomo di Dio appare stolto e insipiente, e questo perché si possa rivelare chi è il vero protagonista della storia: è il Signore!
Questa è una costante e tutta la storia della salvezza è conferma di questa azione di Dio in modo tale che attraverso la piccolezza e l’insignificanza appaia – come dice Paolo – che questa potenza straordinaria appartiene a Dio.
E la domanda che si pone questa sera nel contesto in cui siamo è: “La vita di Don Dino è stata una rivelazione di Dio? Il suo ministero e il suo servizio pastorale hanno suscitato nel cuore degli uomini e delle donne che egli ha incontrato il desiderio di Dio? Il desiderio di Dio, di servirLo e di seguirLo?”. Questa è la domanda.
Perché se è vero quello che dice Paolo, è proprio nella povertà della condizione umana quando essa si consegna a Dio, che Dio si manifesta e Dio si rivela. E qual era la sorgente a cui don Dino attingeva con abbondanza, con forza e con coraggio per il suo infaticabile ministero e servizio alla Chiesa e ai poveri? Già prima di essere ordinato presbitero don Dino aveva maturato la decisione di una donazione totale di sé attraverso una prima formulazione di quei voti e consigli evangelici che costituiranno un’asse portante della sua vita di discepolo e di presbitero.
Questa intuizione di un’assimilazione sempre più conforme, più vera, autentica, radicale, ovvia a quel Signore a cui aveva consegnato la sua vita, sarà una costante del suo sacerdozio. Così scrive:
“La pratica dei consigli evangelici in comunione con il Vescovo, nella sequela di Cristo, servo povero, verginale, obbediente, è il primo e fondamentale servizio dell’Istituto ed è stato il primo anche in ordine storico” (1).
Credo che non si possa comprendere l’opera, il servizio, la generosità di Don Dino, ignorando questa intuizione, che sperava potesse diventare una scelta anche per tutti i presbiteri della Diocesi di Reggio Emilia-Guastalla. Egli ha difeso con forza questa consapevolezza anche durante i tempi turbolenti del post Concilio. Don Dino ammoniva così, mettendo in guardia da una certa teologia: “Questa benedetta teologia che vive di socialità e di razionalismo, che ha gettato un’ombra spaventosa e persino il ridicolo sulla pratica dei voti”.
Ecco dov’è il segreto della fecondità e del ministero di Don Dino: un ministero che si radica qui nel desiderio profondo, accorato di essere assimilato a Cristo e della capacità di attingere nella relazione con Cristo, coltivata e maturata nella preghiera, il desiderio di essere conformato non tanto ad un’ideale di povertà, ma di essere assimilato alla persona di Cristo in tutte le sue dimensioni.
“E quando – dice sempre don Dino – saremo diventati dei preti di tabernacolo, di Rosario, di ginocchia piegate, preti fermentati nel vino della nostra Messa, vicini a noi, stretti a noi saranno i laici, organizzatori magnifici e generosi”.
Preti da tabernacoli, Rosario, ginocchia piegate, fermentati nel vino della nostra messa!
Don Dino è stato un pioniere nel Concilio. Anche nel modo con cui ha saputo trascinare, attraverso la sua adesione al Signore, tanti fratelli e sorelle laici, rendendoli corresponsabili della sua missione e del suo sacerdozio; e il suo ministero è stato radicato profondamente nella Chiesa locale, in particolare egli ha voluto sempre vivo e costante il suo rapporto con il Vescovo.
Confidava ad un suo giovane discepolo, Gianpaolo Morelli, che, se un giorno qualcuno si fosse cimentato in una sua biografia, avrebbe dovuto intitolarla Nihil Sine Episcopo – Niente Senza il Vescovo –, mutuando e facendo sua la parola e la riflessione di Sant’Ignazio di Antiochia. “Non erano forse questi – dice don Dino – i sogni della mia fanciullezza: essere il prete da strapazzo del Vescovo, il cencio?”.
Prete da strapazzo del Vescovo. Se c’è una parola che tutto riassume è questo: niente senza il Vescovo. Meglio che l’Istituto sia subito distrutto – e lo sarebbe certamente – piuttosto che venga a mancare questa essenziale realtà, niente pensieri, niente desideri, niente iniziative, niente senza il Vescovo. Altri tempi, Eh? Altri tempi! Ma egli ha sperimentato anche la fecondità della sua obbedienza quando, in procinto di andare in America Latina, monsignor Baroni gli disse “Ma fa’ un salto prima in Madagascar!”. E da lì sappiamo quanto questa scelta sia stata feconda! Questo ci dice che don Dino è stato un uomo profondamente ecclesiale. Questo legame con la figura del Vescovo e con la Chiesa locale egli l’ha vissuta in modo profondo, radicale, incondizionato. Un sentire come Ecclesia, ma soprattutto un “sentire in Ecclesia”, dentro a quella comunità cristiana. Non è mai stato un battitore libero. Sempre, con i Vescovi che lo hanno accompagnato e stimato, Brettoni, Socche e Baroni, c’è stato un legame di affetto profondo. Abbiamo bisogno di uomini e di donne profondamente ecclesiali, che amano la Chiesa come sposa, non tanto – badate bene – come Istituzione, ma come la sposa di Cristo. Questa comunione profonda egli ha cercato di difendere e di promuovere nell’esercizio del suo ministero, posto come un ministero veramente di frontiera.
E come sappiamo bene, don Dino ha letto e interpretato questo servizio nella Chiesa rivolto in modo chiaro e inequivocabile al servizio dei poveri. Mi colpisce, leggendo alcuni suoi scritti, il suo timore che questo potesse in qualche modo venire meno. Egli scrive:
“Oso affermare, con scienza di non errare, che l’Istituto ha il suo avvenire al servizio dei nomadi, ai carcerati, ai scarcerati nelle Chiese locali, sì che, se un giorno infausto un tale servizio fosse abbandonato, o anche semplicemente disatteso, quel giorno segnerà la fine dell’Istituto. Perché questi poveri sono il tesoro, insieme al tesoro della vita interiore di santità attraverso i voti religiosi – continua – il tesoro dei più miserabili, dei più poveri. Come presenza di Cristo nel suo seno, come realtà di esercizio di carità, è la cosa più gradita a Dio. E quando la Chiesa vive questo ha finalmente raggiunto la sua missione”.
Questo è il punto. Questo è il tesoro che la Chiesa deve custodire e deve porre al centro della sua azione di evangelizzazione, ma attenzione, perché questo servizio ai poveri implica per don Dino e per tutti coloro che lo seguiranno un’assimilazione al povero. Essere poveri come sono i poveri! E sappiamo molto bene che tutta la vita di don Dino è stata sempre una vita contrassegnata anche da una certa povertà di mezzi, di risorse, ma vissute come un segno:
“Nel giorno in cui non serviremo più i suoi poveri, il Signore ritirerà da noi la Sua benedizione fecondatrice e tutto andrà a scatafascio e a nulla varranno i nostri sforzi e le più intelligenti strutture organizzative”.
Uno dei suoi discepoli, don Alberto Altana, indicherà con chiarezza questa scelta – stavo per dire strategica – ma evangelica:
“Il nostro condividere è farci ubriaconi con gli ubriaconi, senza ubriacarsi. Prostituirci con le prostitute, senza prostituirci. Essere con i drogati, senza drogarci. Carcerati con i carcerati, senza fare rapine, cioè condividere tutte le conseguenze, farle nostre, soffrire insieme. Questo è redentivo”.
Questa è la redenzione. E noi sappiamo bene che non possiamo cambiare la vita delle persone, perché soltanto il Signore può aprire un varco e cambiare i cuori, ma ciò che noi possiamo fare è la condivisione, è immergerci in questa realtà.
Nella lettera che ho scritto alla Diocesi per questo anno pastorale ho sottolineato che i poveri non sono soltanto oggetto di una nostra cura e predilezione e servizio, ma devono diventare i soggetti attivi della nostra azione pastorale, perché ci insegnano ciò che è essenziale e ci insegnano a vivere abbandonati alla divina Provvidenza, alla sua volontà. Ci fanno capire che non abbiamo bisogno di strutture organizzative, ma di una consegna totale a quel Signore che fa nuove tutte le cose.
È stato scritto che Don Dino, oltre a tutte queste azioni e iniziative che ha promosso, è stato un suscitatore di vocazioni. Qualcuno ritiene che forse questo sia stato il suo principale merito, perché innamorava le anime della strada di Dio. E tanti, vivendo con lui, hanno incominciato a desiderare di seguire Dio, di servirlo, di mettersi alla Sua scuola. Quanti laici e laiche hanno seguito don Dino grazie al suo esempio? La domanda da cui siamo partiti è: “La vita di don Dino è stata una rivelazione di Dio? Gli uomini e le donne che lo hanno incontrato hanno sperimentato il desiderio di seguire di appartenere al Signore?”. Le testimonianze raccolte convergono verso questa certezza.
E uno dei suoi biografi, forse il più importante, Sandro Spreafico, scrive: “Ero andato alla ricerca di qualche miracolo compiuto da don Dino, poi pian piano questa preoccupazione è andata scemando, perché mi sono accorto come tutta la vita di Don Dino sia da considerarsi un miracolo, un’onda lunga – continua – portatrice di grazie, coinvolgenti altri soggetti ecclesiali e no, che fanno onore alla causa del Vangelo e della Chiesa”.
Note al testo
(1)
Le parole di don Dino Torreggiani che l’Arcivescovo cita nel corso dell’omelia sono tratte da: Spreafico S., Il calice di legno. Dino Torreggiani e la sua Chiesa, ed. il Mulino, 2014 – Bologna.
Una risposta su “L’Omelia dell’Arcivescovo Morandi per la beatificazione di don Dino Torreggiani”
L’ omelia del vescovo mi riporta indietro di tanti anni. Ho conosciuto questo santo prete nel 54 vedevo in lui una luce splendida. Un giorno insieme siamo andati nella casa dove vi erano persone del circo presso vingone Firenze gli dissi mons. ha il calzino rotto la tonaca é sporca e lui figlio mio cosa importa in paradiso non si va con il vestito nuovo. Era il mio direttore spirituale.