Reietti e disadattati
del Sud Ovest americano, ossatura di una prosa densa come una foresta
di mangrovie
Per chi scrive, era l’immenso autore di “La strada” e “Meridiano di sangue”, quest’ultimo considerato unanimemente il suo capolavoro, tradotto per il pubblico italiano da Raul Montanari.
Cormac McCarthy è il gigante della letteratura di cui si avverte la perdita a un giorno, o dieci, dalla scomparsa, e di cui si avvertirà per i futuri anni a venire. Ha raccontato e illustrato con le sue parole vibranti “il volto più buio dell’America, quello desolato della violenza e degli outsiders”, ha ricordato il New York Times nel pezzo che ne annuncia la morte, avvenuta il 13 giugno a Santa Fe. L’eredità letteraria è smisurata come le praterie del West che descriveva nei suoi romanzi, fra cui si contano “Cavalli selvaggi” e “Non è un Paese per vecchi”, diventato film di successo.
McCarthy è la penna della “Trilogia della Frontiera”, in cui emergeva chiaro il suo pensiero riguardo la condizione umana: una visione esistenzialista, a tratti tetra e oscura. Avvolta nelle tenebre come lo sono i suoi protagonisti. Si è detto che ora appartiene all’empireo dei grandi che non hanno ricevuto il Nobel, accanto a Philip Roth, per dire il primo che affiora alla mente.
Se il massimo riconoscimento alla loro arte fosse arrivato in vita, penso lo avrebbero accettato di buon grado come chi sa di meritarselo, senza mostrare una particolare esaltazione, ma nemmeno esibendo riluttanza, come aveva fatto il menestrello. Entrambi sapevano cogliere e interpretare il contemporaneo, entrambi provenivano dalla East Coast statunitense, con la differenza che Roth scavava nelle debolezze e depravazioni del wasp americano, di cui ci restituiva con dovizia dettagli della vita intima, mentre McCarthy ha scelto di ritrarre i disadattati dell’Appalachia e del Sud Ovest americano, attraverso una prosa densa, stratificata come una foresta di mangrovie.
Fatte le debite proporzioni, le ultime settimane sono state cruciali anche per la letteratura italiana, sebbene forse sia più corretto parlare di editoria, con l’uscita della cinquina dello Strega e, conseguentemente, l’annuncio dei grandi esclusi. Fra questi, ce n’è uno interessante. “Ferrovie del Messico”, di Gian Marco Griffi, pubblicato dal piccolo editore Laurana, è un grande romanzo corale, che si muove fra storia e leggenda, che alterna registro comico a drammatico, e che si riempie di luoghi, da Asti, dalla Repubblica Sociale Italiana, alle ferrovie del Messico, tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso.
I personaggi vorticano tutti intorno a Cesco Magetti, milite della Guardia nazionale repubblicana ferroviaria, tormentato dal mal di denti, incaricato di compilare una mappa delle ferrovie del Messico, e Tilde Giordano, imbevuta di letteratura della quale Cesco si innamora. A candidarlo è stato Alessandro Barbero, asserendo fra l’altro, “che attinge a tutte le risorse dell’italiano, delle parlate regionali, dei linguaggi specialistici, e financo a gerghi furfanteschi e fantastici”.
Come dire che non c’è limite all’immaginazione, e ve ne accorgerete anche stavolta, nella nostra pagina, che propone l’angolo della scienza accanto a un classico della letteratura di viaggio e un instancabile sperimentatore dell’arte.