“Saman. Vita e morte di una ragazza italiana” è il titolo del libro dei giornalisti Jacopo Della Porta ed Elisa Pederzoli edito da Aliberti.
Chiuso il libro dopo averlo letto interamente in un solo pomeriggio, la domanda che rimane è una soltanto: ma davvero si è fatto tutto per evitare la tragedia di Saman Abbas?
“Non lo sapremo mai…” è così che provano a rispondere Jacopo Della Porta ed Elisa Pederzoli della Gazzetta di Reggio, i due autori di “Saman. Vita e morte di una ragazza italiana”. Il libro – che verrà presentato giovedì 15 giugno alle ore 18 alla Libreria all’Arco di Reggio Emilia e che si può acquistare in tutte le librerie e nelle piattaforme digitali – ripercorre tutta la storia della diciottenne pakistana tra sogni di libertà ed amore, il desiderio di emancipazione e quel sentimento di ribellione verso una famiglia, o meglio un clan, quello degli Abbas, che ostacola e boicotta in ogni modo il disegno di vita di questa ragazza la cui unica colpa è quella di voler vivere all’occidentale o più semplicemente di voler vivere come una ragazza normale.
Il caso Saman Abbas ha rimbalzato nelle cronache di tutto il mondo ma quello che spesso non è stato raccontato viene ricostruito molto bene dai due autori: il dramma della solitudine di una giovane pakistana e della sua gran voglia di vivere e aprirsi al mondo, oltre quella “porta rossa” che non solo era la soglia di casa ma anche il confine fra la sua realtà di vita e il sogno di un futuro diverso. E all’unisono i due giornalisti sono convinti che questo caso per la grande risonanza mediatica rappresenta una speranza per tutte le donne che subiscono privazioni, violenze e costrizioni.
Elisa, Jacopo, di questo caso si è detto tanto. Secondo voi si è detto tutto?
Elisa – Per me non riusciremo mai a dire tutto. Noi abbiamo provato a mettere insieme le cose e approfondire il contesto di questa vicenda raccontando chi era Saman, una ragazza sola e isolata che è riuscita nella grande rivoluzione di dire no a un matrimonio forzato. E non è così semplice capire questa cosa se non si fa riferimento alla realtà in cui è vissuta. Ed è lei stessa a raccontarci della sua vita attraverso i suoi canali social, i suoi messaggi, gli audio al fidanzato e agli assistenti sociali, testimonianze dirette che noi abbiamo raccolto nel libro.
Jacopo – Il primo capitolo si intitola “Come un fantasma”. Di Saman non sappiamo nulla fino a quando non decide di denunciare i propri genitori alla magistratura per poi essere affidata ai servizi sociali. Da lì l’attenzione dei media su di lei la portano alla ribalta e iniziano a conoscere chi è veramente questa ragazza. Ricostruiamo la sua vita attraverso pochi frammenti anche attraverso le poche testimonianze di quelle pochissime persone che hanno avuto a che fare con lei.
Secondo voi il modello di integrazione che viene ben descritto nel libro ha fallito?
Jacopo – Il nostro intento non è parlare dell’immigrazione in quanto tale perché comunque è un tema che spesso si presta a divisioni e visioni parziali della realtà. Noi descriviamo il modello Novellara che è semplicemente la realtà delle cose: un modello ben conosciuto e ben organizzato da esempio per tanti.
C’è stato un fallimento da parte delle istituzioni? O possiamo solo parlare di “coincidenze sfortunate” che hanno portato a questo epilogo…
Elisa – Il sistema funziona perché Saman denuncia i genitori già nel 2020 e i servizi sociali provvedono tempestivamente a metterla al sicuro in comunità. Quindi ognuno in realtà ha fatto la sua parte. Ma se lei è costretta a tornare a casa per recuperare i suoi documenti vuol dire che c’è qualcosa che non va nel protocollo di intervento. Forse la vera questione è l’ignoranza sul tema “matrimoni forzati”, ma più in generale sul tema culturale di usi e costumi di altri popoli che sono in Italia. Saman rivendica la sua libertà sfidando la rigidità della sua cultura per abbracciare quella occidentale. Ma alla fine è lei che finisce sotto protezione in un istituto a Bologna quando invece dovevano essere i genitori a finire sotto controllo. Questo è il punto.
Jacopo – Alla fine ciò che ha fallito è stata la comprensione del vero dramma di Saman e di quelle ragazze che come lei si sono trovate davanti alla piaga del matrimonio forzato. Dopo la sua vicenda si sono moltiplicate le denunce contro i matrimoni forzati e la cosiddetta “legge Saman” prevede ora un permesso di soggiorno temporaneo che se anche lei avesse avuto, probabilmente l’avrebbe salvata. Con Saman manca una procedura univoca su come muoversi senza singole interpretazioni.
L’attaccamento alla famiglia ha contribuito al tragico epilogo?
Elisa – Certo. Non dimentichiamo che parliamo di una ragazza di diciotto anni. Lei torna a casa non solo per i documenti ma perché, come raccontiamo nel libro, vuole che i genitori capiscano la sua voglia di costruire una vita tutta sua, fatta di libere scelte a cominciare dal poter andare a scuola, che le viene negato dalla famiglia e poi anche dal poter decidere di chi innamorarsi.
Noi cittadini italiani, quelli della porta accanto, abbiamo delle responsabilità nella vicenda Saman?
Jacopo – Essendo cose che non fanno parte del nostro orizzonte culturale difficilmente le vediamo. Troppo spesso appaiono come cose lontane che non ci appartengono e quindi non ci pensiamo neppure. Noi ci chiediamo perché c’è stata poca considerazione di questo problema nel libro: forse perché quando queste cose emergono difficilmente “ci intromettiamo” per paura.
Nella storia di Saman giocano un ruolo i social: finestra sulla libertà ma anche condanna da parte della famiglia…
Elisa – I social hanno un ruolo positivo perché le hanno permesso di entrare in comunicazione con qualcuno. Dopo di che non credo che siano stati i social a condannarla a morte. Le reazioni scattate da parte della famiglia non sono dettate dalle foto pubblicate su Facebook ma solo dalla loro ottusità e chiusura.
Jacopo – I social giocano un ruolo cruciale nella vita di Saman. La sua reclusione per via del padre l’ha costretta ad evadere attraverso i social. La realtà virtuale della rete diventa la sua finestra sul mondo. Lei si definisce sui suoi profili una italian girl e una alone girl e dicono tanto se non tutto di lei.
Questa storia cosa lascia?
Elisa – Saman ci ha svegliato su questo fenomeno. E forse proprio per questo non è stata dimenticata. Saman con la sua vicenda personale è diventata un po’ la figlia di tutti. Questo libro è dedicato a tutte le ragazze e le donne che hanno subìto e subiscono lo stesso trattamento.
Jacopo – Saman ha bucato l’indifferenza culturale che c’è attorno alle culture diverse dalla nostra. Non è razzismo ma è un fatto reale. Non tutti ci accorgiamo di quello che accade nelle comunità attorno alla nostra. Saman ha umanizzato questo problema. Lei è andata oltre. Ci siamo identificati in lei, in quell’anelito di libertà che sentiamo tutti. Quindi il suo caso è diventato di tutti.
Anche questo entra tra i casi di femminicidio, problema in crescita ovunque. Cosa ne pensate?
Jacopo – Il caso di Saman è certamente un femminicidio ma lo metterei nei delitti di onore. Certo c’entra il maschilismo, il patriarcato, ma il delitto è stato commesso dall’intera famiglia: Saman ha sfidato non solo la sua famiglia ma anche la sua tradizione culturale, quella del Punjab più estremista. Ha portato vergogna alla famiglia. E non è una questione di religione. L’Islam non c’entra nulla. È proprio una quesitone di onore della famiglia. In molti sul caso Saman tirano in ballo l’aspetto religioso che non c’entra o comunque è molto marginale.
Elisa – C’è un’emergenza sui delitti delle donne e questa emergenza va prevenuta intervenendo a tutti i livelli, già dalla scuola, dalla famiglia, da quando si è bambini, il rispetto si inizia da li. Per contrastare questa piaga si deve iniziare dall’educare le persone al rispetto, fin da piccoli.