La Chiesa degli ultimi banchi

Nella geopolitica delle celebrazioni sono sempre stata nei primi banchi: come bambina di catechismo mi spettava di diritto (e dovere). Una volta cresciuta, era ancora lì il mio posto: prima come giovane aiuto-catechista in mezzo ai dolci pargoli per farli stare in silenzio durante la Messa, poi in mezzo ai ragazzi, cercando di farli rimanere svegli durante le celebrazioni; diverse volte ho avuto il posto riservato in quanto suonatrice di chitarra o percussioni, in altre occasioni mi sono trovata nelle prime file perché è il posto delle “autorità”.

Però…però poi il tempo è passato, i “bimbi” del mio gruppo sono cresciuti, ho terminato gli incarichi da educatrice, altri ragazzi hanno imparato a suonare la chitarra e le percussioni, le “autorità” sono decadute e, dai primi banchi a cui ero abituata da una vita, mi sono ritrovata in fondo alla chiesa.
È dall’ultimo banco che negli ultimi anni sto seguendo le celebrazioni e la vita della mia comunità: un ribaltamento di posto che sempre più mi accorgo essere non solo una collocazione fisica ma anche “spirituale”. Certo, di per sé non mi sono preclusi i primi posti, ma si sa… i bimbi di catechismo, i giovani, le giovani famiglie, gli anziani che poi rischiano di rimanere in piedi, il mio essere diversamente puntuale… sono tutti elementi che mi hanno riposizionata rispetto a quello che sentivo come il “mio posto”. Ed è da qui che ho imparato a guardare le celebrazioni e la comunità da una nuova prospettiva: mi sono accorta di un sacco di persone diverse che vengono a Messa e che quindi fanno parte della comunità.

Ci sono alcuni ragazzi che partecipano singolarmente, senza far parte di nessun gruppo giovani o altro, ci sono diverse famiglie che mi sembra vengano “da giù” ma che probabilmente non conoscono nessuno, alcuni anziani che arrivano e vanno via sulle prime note del canto finale, i ritardatari come me, e altri fedeli che partecipano in modo più o meno saltuario. Di tante di queste persone non avevo mai notato la presenza, abituandomi a pensare alla comunità come di “quelli delle prime file”. In effetti, stare davanti permette di partecipare da più vicino alle celebrazioni (nel bene e nel male, a seconda del minutaggio dell’omelia) ma ti fa dare le spalle fisicamente e forse spiritualmente a tanti altri fedeli.

Con il passare dei mesi ho notato che chi si trova nelle retrovie, spesso è lì in quanto non è ascrivibile a nessuna tradizionale categoria parrocchiale: io stessa ci sono arrivata un “non” dopo l’altro. “Non più” catechista, “non” sposata, “non” fidanzata, “non” giovanissima, “non più” nel coro, ecc..idem per i miei compagni di banco: giovani ma “non” del gruppo, famiglie ma “non” inserite nel giro, fedeli ma “non” abbastanza.
Ed essere tra gli ultimi posti ti fa sentire un po’ invisibile, come se quello che si dice all’ambone, quello che la comunità vive, le preghiere, gli avvisi della settimana, non ti riguardino fino in fondo.

È quindi dalle ultime file che ho iniziato a provare come un certo fastidio per l’abuso dell’espressione “Chiesa in uscita”. Come “in uscita”? Se io stessa, quando avevo ancora il curriculum in ordine, non sono stata capace neanche di voltarmi verso il fondo della chiesa? In uscita verso dove, se quando mancano catechisti è perchè forse li cerchiamo sempre e solo tra “quelli delle prime file”? Chiesa in che modo, se come assemblea sembriamo selezionare quelli “in regola” e più simili a noi? Di quanti non ci stiamo accorgendo?

Se la Chiesa in uscita, giustamente auspicata e promossa negli ultimi 10 anni da Papa Francesco, non si è ancora realizzata, possiamo intanto puntare più concretamente ad arrivare almeno agli ultimi banchi. Sarebbe già un grande passo.

Iaia Oleari

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