Don Pasquino Borghi, ribelle per amore

Il 30 gennaio 1944 presso il poligono di tiro di Reggio Emilia don Pasquino Borghi venne fucilato, senza alcun processo, insieme agli antifascisti Ferruccio Battini, Romeo Benassi, Umberto Dodi, Dario Gaiti, Destino Giovannetti, Enrico Menozzi, Contardo Trentini ed Enrico Zambonini.
Il 7 gennaio 1947, in occasione delle celebrazioni della nascita del Tricolore, il Capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, consegnò alla madre di don Pasquino la Medaglia d’oro al Valor militare alla memoria del figlio.

Il figlio del mezzadro

Don Pasquino, nato mezzadro a Bibbiano nel 1903 da una famiglia di origine contadina ed ordinato sacerdote nel 1930, esercitò il suo magistero all’insegna di una “radicalità spirituale” che lo avrebbe indotto a misurarsi con scelte impegnative. Infatti, prima l’esperienza missionaria in Sud Sudan come padre comboniano (1930-1937), poi il passaggio alla severa vita contemplativa nella Certosa di Farneta (1938-1939) e quindi l’attività profusa nelle parrocchie di Canolo di Correggio e di Tapignola a Villa Minozzo all’inizio degli anni Quaranta, sono le tappe principali di una biografia interrotta prematuramente dai drammatici eventi della seconda guerra mondiale.
Fin dal periodo trascorso nella parrocchia di Canolo, il sacerdote nel corso della sua azione pastorale non mancò di assumere posizione contro la guerra condotta dall’Italia fascista a fianco della Germania nazista; in seguito, dopo essere divenuto parroco di Coriano – Tapignola nell’alto Appennino reggiano, l’armistizio dell’8 settembre 1943 impose a don Borghi una decisa scelta di campo: entrato nel movimento partigiano con il nome di battaglia di “Albertario”, il parroco fece della canonica di Tapignola un rifugio di perseguitati, di ex prigionieri alleati in fuga dai tedeschi, militari sbandati e partigiani.

Tapignola e Cervarolo, tappe sulla “via delle canoniche” 

La sua canonica rappresentò un importante punto di riferimento nell’ospitare e indirizzare verso il Sud, attraverso il valico dell’Appennino e la Linea Gotica, i prigionieri alleati nonché per il movimento della Resistenza in provincia di Reggio Emilia.
Cresciuto fra il seminario e le missioni in Sudan, scrive poco e non lascia racconti circa le cause della sua condanna. Ancor meno parlò e anzi tacque risolutamente a Villa Minozzo, Scandiano e Reggio durante gli interrogatori seguiti all’arresto nonostante le percosse e le umilianti sevizie. Ospitava chiunque. Come faceva pure don Battista Pigozzi, parroco di Cervarolo, che disse un giorno alla nipote: “Io non guardo a italiano, inglese o tedesco; io faccio la carità, e se hanno fame non li lascio senza mangiare e non ho paura di niente perché faccio quello che comanda il Signore”.

Don Pasquino e don Battista erano due tappe in quella ‘via delle canoniche’ che salvò tantissime vite permettendo un rifugio fra i monti o addirittura l’attraversamento del fronte. A beneficiarne furono soldati alleati che fuggivano dalla prigionia (oltre 3.000!), renitenti alla leva (condannati a morte!), ebrei, perseguitati politici, famiglie comuni e i primi partigiani.
Proprio sulla via delle canoniche la disobbedienza civile al potere malvagio dei tedeschi e dei fascisti spesso incontrò, legandosi ad essa, la volontà di quanti volevano combattere gli oppressori.

Nell’Italia allo sbando, del Re in fuga e dell’esercito liquefatto furono anche le canoniche e furono i preti, con il loro millenario mandato di carità, ad attirare l’attenzione di chi cercava un riparo. Anche fra i partiti e fra i ribelli. Anche sulla via delle canoniche, non per opere eroiche e non per odio, sbocciò la Resistenza. Questo è un elemento che non va sottovalutato, insieme a nomi e luoghi: don Angelo Cocconcelli parroco di San Pellegrino sede del CLN, don Enzo Boni Baldoni (parroco di Quara), don Domenico Orlandini (Poiano), don Venerio Fontana (Minozzo) e poi Febbio, Secchio, Gazzano, Fontanaluccia, Bismantova e tante altre. Una simile attività non poteva passare inosservata e tedeschi e fascisti erano sempre in attesa del pretesto per sopprimerne i protagonisti. Lo dimostrano gli orrori di Cervarolo e l’assalto tedesco alla chiesa di Casaglia di Montesole nel Bolognese: camicie nere e camicie brune sono immuni dal secolare rispetto dei luoghi di culto e dei loro pastori.

Il pensiero corre con timore a quelle canoniche, spesso gremite di ebrei o partigiani, e quando sento qualcuno che sbraita “Dov’era la Chiesa?”… don Pasquino e tutti gli altri sacerdoti reggiani ci parlano, senza parole, di una volontà di difendere il prossimo e prendersene cura.
Don Pasquino, “Ribelle per amore” rimane fedele fino alla morte a “quello che comanda il suo Signore”: è un martire, è un patrimonio non solo per la Chiesa ma per tutta la comunità reggiana. Il pretesto per arrestarlo viene da uno scontro a fuoco (senza vittime né feriti) provocato ad arte dai fascisti nella sua canonica il 21 gennaio 1944. Il pretesto per la morte lo fornisce l’uccisione di alcuni militi fascisti durante la sua reclusione.

Resistente all’ingiustizia

La condanna alla fucilazione nel Poligono di Tiro di Reggio Emilia è molto eloquente: “concorso in omicidio” per aver “alimentato l’atmosfera dell’anarchia e della ribellione e determinato gli autori materiali degli assassini a compiere i delitti” oltre ad essersi macchiato di “favoreggiamento ed ospitalità ad una banda armata ribelle e a prigionieri nemici”. L’intento era quello di mostrare come l’aiuto e la carità a stranieri, renitenti e ribelli fossero puniti con la morte. Doveva essere una morte esemplare.
Morì baciando e benedicendo tutti quelli che erano con lui che pure erano di provenienza diversa, ideale e politica, ma uniti nella stessa scelta. Lasciando, anche nell’ultima ora, l’esempio di una fratellanza, di una capacità di condivisione nella comune scelta della difesa della libertà che va oltre ogni fede politica e religiosa e credo, seminando così i germi di quello che poi sarà il comune sforzo costituzionale e che impegna anche noi in questo nostro tempo per la difesa della democrazia.

“Dicono che è stato partigiano: è vero, ma lui è sempre stato partigiano del bene e della carità ed è sempre stato resistente all’ingiustizia e alla violenza. Quello che ha fatto, lo ha fatto perché lui era abituato in famiglia alla bontà ed alla carità. A Tapignola aveva continuato a fare quanto aveva fatto in Africa, il missionario, dando tutto ciò che aveva agli altri”: così lo ricordava la sua mamma Orsola Del Rio Borghi.
A distanza di tanti anni, se il nostro compito di cittadini è capire il nostro tempo, resistere e combattere tutte le forme di rigurgito fascista e assumerci le responsabilità di ciò in cui crediamo, don Pasquino è un esempio preziosissimo.
Vorrei concludere riprendendo le parole di una poesia di don Giuseppe Dossetti su don Pasquino: “Da quella ferita attingiamo la memoria della carità, del dono senza condizioni e rimpianti. Vennero per noi i giorni del compromesso, talvolta dell’infedeltà. Oggi, però, ricordandoti, sentiamo che ci è data una nuova occasione, perché l’amore si rigenera sempre, come un albero tagliato, a primavera”.

Giuseppe Pagani
presidente ANPC Associazione Nazionale
Partigiani Cristiani – sezione di Reggio Emilia

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