Una linea sottile

In Vita e destino lo scrittore russo Vasilj Grossman conduce il lettore sulle rive del fiume Volga, al cuore degli eventi conclusivi della battaglia di Stalingrado – l’insieme di sanguinosi combattimenti che tra il 17 luglio 1942 e il 2 febbraio 1943 videro l’Armata Rossa contrapporsi alle truppe dei nazisti e dei loro alleati, fino alla vittoria (decisiva rispetto alle sorti russe e agli esiti del secondo conflitto mondiale).

Il campo sovietico è sottoposto alla supervisione del segretario politico Getmanov, un burocrate poco propenso a mettersi nei guai. Tra le esigenze del partito e la propria coscienza personale, egli non ha dubbi su cosa scegliere.

Linea

“Lo spirito del partito e i suoi interessi dovevano permeare ogni responso in qualunque circostanza […]. Lo spirito del partito doveva permeare anche l’atteggiamento dei dirigenti verso qualunque questione, libro o quadro, e dunque, per quanto difficile fosse, se gli interessi del partito contraddicevano le simpatie personali, si era tenuti a rinunciare senza un battito di ciglia a eventuali consuetudini o al libro preferito. […] c’era un livello ancora più alto di appartenenza al partito, dove nessuno aveva inclinazioni o simpatie proprie, e dove ciascuno aveva a cuore solo e soltanto ciò che sta a cuore al partito”.

In questo sistema, il prezzo da pagare per giungere al vertice è la radicale rinuncia a se stessi (“se in contrasto con la linea – sentimenti privati come l’amore, l’amicizia e lo spirito di campanile non potevano semplicemente esistere”) e, all’occorrenza, il sacrificio degli altri (“Non esistevano compaesani né maestri […]; non esistevano amore né compassione”).

A guidare le operazioni militari è invece il giovane ufficiale Pëtr Pavlovič Novikov, tanto coraggioso quanto ambizioso. Dal romanzo Stalingrado, che di Vita e destino costituisce l’antefatto, apprendiamo delle sue doti di osservatore e di stratega (alcune sue intuizioni circa l’utilizzo dei carri armati verranno recepite dal Ministero della Guerra).

Fidanzato con la bella Evgenija Nikolaevna, Novikov patisce il confronto con l’ex-marito di lei, membro integerrimo del partito e commissario militare: e nel suo impegno indefesso al fronte non è difficile riconoscere il desiderio di dimostrare il proprio valore alla donna amata, sfollata a leghe di distanza.

In una fase cruciale della battaglia, il Comando dell’Armata Rossa intima a Novikov di avviare una manovra di attacco. Egli intuisce immediatamente che l’esecuzione di quell’ordine implica un’inutile carneficina di soldati russi a mero scopo diversivo, messa tranquillamente in conto dai suoi superiori.

Lui e Getmanov ne scamperebbero, al sicuro nel quartiere generale, ma non così i suoi uomini. In quell’istante, la guerra combattuta palmo a palmo alle porte della città passa in secondo piano: tutte le vicende si condensano nel conflitto che si svolge dentro al cuore di quegli uomini, dentro al cuore di ogni uomo. Un conflitto tra due modi inconciliabili di guardare alla vita, al valore della singola persona, al potere, alla libertà.

In guerra i soldati muoiono, ed è doveroso che i singoli siano messi in subordine rispetto al bene collettivo individuato dal partito e dai suoi emissari: ognuno ha anzi il dovere di sacrificarsi per “gli altri”, per lo Stato, per la causa.

Questa, in estrema sintesi, la logica sottesa all’ordine impartito dai generali e condivisa da Getmanov, che esorta Novikov ad eseguirlo celermente (“«Tolbuchin ti mangerà vivo, fa’ attenzione» disse Getmanov, e gli indicò l’orologio”. Del resto a Getmanov “era sempre sembrato naturale, inconfutabile dover sacrificare vite umane per la causa, e non solo in tempo di guerra”).

Novikov, dal canto suo, esita. Ha davanti agli occhi i volti delle sue giovanissime reclute, poco più che ragazzini, mandate a morire dal mondo, dalla storia e dai piani dello Stato Maggiore – e, come ultimo anello di questa inesorabile catena, dall’ordine che egli sta per trasmettere alle sue brigate.

Così decide. “Esiste un diritto superiore a quello di mandare a morire senza pensarci due volte. È il diritto di pensarci due volte prima di mandare qualcuno a morire. E Novikov lo esercitò”, attendendo otto minuti prima di dare il segnale.

Contro ogni previsione la sua scelta si rivelerà militarmente vincente e scongiurerà una strage, anche se la vittoria così riportata non gli eviterà di cadere in disgrazia.

In queste pagine di Vita e destino si consuma il dramma del confronto tra il singolo uomo e l’ideologia, che in ogni tempo impone la “logica di un’idea” a scapito della realtà (così la Arendt), e conseguentemente riduce anche la persona umana a ciò che essa non è.

A pura soggettività individuale, totalmente auto-centrata, senza legami o dipendenze. E, come conseguenza solo apparentemente paradossale, a mera parte di un tutto variamente identificato, che da quel “tutto” trae consistenza, significato e dignità.

Il risultato è il medesimo: che sia concepito come monade autonoma o, viceversa, come “cellula” di un organismo generale nel quale il suo valore si esaurisce, l’uomo si perde. Diventa, al più, elemento intercambiabile in una massa informe (intercambiabile, quindi eventualmente sacrificabile).

È la tentazione utilitaristica nelle sue infinite varianti: guardare al valore dell’esistenza umana e al vivere associato secondo il “bene del tutto” o “del maggior numero”, prescindendo dal bene di ciascuno – amare “il bene dell’umanità” o “della società” sacrificandogli senza troppo pudore il bene dei singoli uomini, con il loro nome e cognome.

La nostra epoca, che ama ritenersi post-ideologica, ha mantenuto dell’ideologia i tratti essenziali e continua a dibattersi tra individualismo esasperato ed omologazione senza residui.

Ad esempio, l’identificarci e contrapporci reciprocamente come “pro” o “contro”, come “sì-” o “no-”, quale che sia il tema del contendere, è sufficiente perché possiamo arrivare ad impedirci l’un l’altro di andare alle ragioni delle cose – ad impedirci di dire “io” come lo dice una persona (e non un individuo puntiforme o l’atomo di una massa indistinta).

Novikov dice integralmente il suo “io”, che porta in sé tutti i legami – concreti, carnali – di cui la sua esistenza è impastata; e assieme ad essi la vertigine della sua responsabilità personale, della sua libertà. Le generalizzazioni non lo affascinano.

Combatte per la Russia perché combatte per amore di alcuni russi in carne ed ossa: per difendere la donna che ama e la famiglia del fratello minatore, tanto fisicamente lontani da lui quanto presenti al suo cuore. E, poiché ama una donna e vuol bene a suo fratello, è capace di voler bene anche ai suoi soldati, dei quali conosce i nomi e le storie (ed è questo a fare di lui un buon comandante).

Ciò che accade alle crude, scarne esistenze raccontate da Grossman impegna senza posa anche noi. Dalla linea del fronte di Stalingrado siamo condotti alla linea sottile che alberga nel più profondo della nostra persona, a quel punto di giunzione in cui tutto ciò che siamo e che viviamo si compendia, dove non c’è slogan o astrazione che tenga.

Condotti di fronte a noi stessi, in quella faglia aperta sulla battaglia tra la verità e la menzogna, tra il bene e il male che palmo a palmo, istante dopo istante, si contendono il nostro cuore fino all’ultimo giorno della nostra vita.

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