È stata una scoperta particolare, di quelle che ti lasciano delle domande più che darti delle risposte. Una cosa simile è capitata agli scienziati all’arrivo della prima foto scattata del telescopio spaziale James Webb: “Lo scenario di questa immagine – ha sottolineato il numero uno della Nasa Bill Nelson – corrisponde a un pezzetto di cielo grande quanto un granello di sabbia sulla punta di un dito. Col tempo saremo in grado di rispondere a domande che ancora non sappiamo formulare”. Beato lui, perché davanti al lavoro di Ugo Mulas le domande ci sono, ma quanto alle risposte me ne manca ancora qualcuna.
Mulas nasce il 28 agosto del 1928 a Pozzolengo nel bresciano. Suo padre, sardo, vi si era trasferito in cerca di fortuna. Si diploma al liceo classico di Desenzano sul Garda e subito dopo si trasferisce a Milano per iscriversi a Giurisprudenza. Gli studi classici lo portano ad amare la letteratura e soprattutto la poesia. Un tentativo di approccio con la pittura lo porta ad abbandonare l’università per iscriversi ai corsi serali di nudo all’accademia di Brera. È un abbandono strano: dati tutti gli esami non discute la tesi, una vita inquadrata in un impiego lo spaventa, sente che deve tentare altre strade. Mi viene da sorridere perché la stessa cosa è capitata anche a me. Dati tutti gli esami del corso di laurea in Scienze Biologiche, invece di discutere la tesi, ho scelto di fare il fotografo e che volete, tutte le volte che ci penso non me ne pento.

La mattina, per mettere insieme qualche soldo, Ugo la passa al Palazzo dei giornali in piazza Cavour, scrive didascalie e qualche breve pezzo per un’agenzia fotografica. I pomeriggi li passa seduto al Jamaica, quando il bar di via Brera era il ritrovo di artisti e intellettuali, di scienziati e registi. Ai suoi tavoli si sedevano Lucio Fontana e Bruno Cassinari, giornalisti come Pietrino Bianchi e Marco Valsecchi de Il Giorno. Un bar leggendario e la leggenda, infatti, vuole che Mussolini ci abbia ancora un debito in sospeso. Mulas conosce un mondo che lo affascina: “Al Jamaica c’erano anche dei giovani che volevano fare i fotografi: ci si trovava Alfa Castaldi, Carlo Bavagnoli, Giulia Niccolai e tanti altri – confesserà a Arturo Carlo Quintavalle, in una lunga intervista apparsa sul catalogo che lo CSAC gli dedicherà, a due mesi dalla morte, nel maggio 1973 – C’era qualche bravo fotografo, evidentemente, ma noi volevamo fare i fotogiornalisti, i fotoreporter di città”.
Fare il “topo” di agenzia lo stanca presto, se ne va sbattendo la porta e si ritrova cinque minuti dopo seduto su una panchina in via Palestro. Qui incrocia un giovane che si è appena licenziato anche lui, gli racconta che vuole fare il fotografo e l’altro gli risponde: “Pensa te, io faccio il fotografo”. Quel giovane è Mario Dondero: gli presta una vecchia macchina dicendogli semplicemente: “1/100 e 11 al sole e 1/25 e 5,6 all’ombra”. Non mi ci metto neanche a spiegare che cosa significhino quei numeri, oggi basta schiacciare un bottone e sei subito un bravo fotografo. Allora se non li sapevi combinare nel modo giusto, sul negativo non ci trovavi proprio niente. Decidono di mettersi in società per realizzare fotografie da vendere ai giornali: “La prima immagine che scattai – ricorderà Mulas – la vendetti subito”.

Agli inizi del 1954 in via Brera era tutto un parlare della Biennale che si sarebbe tenuta in primavera a Venezia. Mario è più letterato, ma conosce tutti i pittori, Ugo preferisce l’arte, ma sa a memoria le poesie di Ungaretti e Montale e i due decidono di andarci. Mulas fotografa proprio Ungaretti in piazza San Marco con l’ombrello sotto braccio e gli occhiali in mano. Cattura uno sguardo penetrante di Max Ernst sul traghetto e il re Gustavo di Svezia mentre entra ai Giardini. Scatta un’immagine di artisti, seduti intorno a un tavolo per un aperitivo, che sa di Santa Inquisizione, ma va da sé che durante le Biennali in certi incontri ce le si dava di santa ragione. Fotografa gli operai al lavoro durante l’allestimento dei padiglioni, spesso dal basso, la 6×6 che usa permette infatti queste inquadrature. Coglie un’immagine di Lucio Fontana che mostra meraviglia davanti a uno dei suoi ‘Concetti spaziali’. Si ritrova spesso in piazza, nei pressi del Florian, a fotografare i protagonisti a passeggio, o quelli a sedere al ristorante Paradiso ai Giardini.
Il suo lavoro è talmente apprezzato che verrà chiamato sempre come fotografo ufficiale, finché nel 1972 non lo fermerà la malattia. Il 1972, proprio l’anno che vede, nel padiglione americano, esposte dieci fotografie di Diane Arbus, una parte di quelle stesse che nel 1967 turbarono le sale del MoMA nella mostra ‘New documents’. Forse una sommessa richiesta di perdono a un’artista che in vita non venne mai celebrata, ma di questo ho già scritto. Alle Biennali alterna un’intensa attività professionale, aiutato da una ragazza conosciuta al Jamaica, Antonia Buongiorno, che diventerà sua moglie. Pubblica reportage su Illustrazione Italiana, collabora con Pirelli e la rivista Domus, con la stilista Mila Schön e Giorgio Strehler, solo per citarne alcuni.
Nel suo lavoro tuttavia la fa da padrone la documentazione prodotta alle Biennali. Il suo modo di lavorarvi è diventato un modello da seguire per tutti. Prima si fotografavano le opere degli artisti per il catalogo, al massimo ci si potevano aggiungere i ritratti di quelli presenti, con lui cambia tutto. È come essere a teatro, sul palcoscenico di Venezia si muovono attori, artisti e visitatori, collezionisti e intellettuali, critici e amatori. Le sculture e i quadri fanno da sfondo. Nel 1997, quando Pietro Mussini mi chiamò per realizzare il catalogo, curato da Valerio Dehò, “Silenzio – Sei meditazioni oltre il rumore”, ne presi spunto anch’io.

Il mondo artistico appena conosciuto lo coinvolge pienamente e tra il 1964 e il 1967 Mulas va tre volte a New York, per ritrovare gli amici/artisti che aveva conosciuto lungo le calli. Inizia così a documentare quel momento straordinario nella storia dell’arte moderna che prende vita attorno al Greenwich Village a Manhattan. Fotografa Marcel Duchamp a spasso per il Central park, va in Carolina del Sud a fotografare Jasper Johns di spalle che scrive su una lavagna nera, la mano dietro la schiena regge una cartina degli Stati Uniti. Andy Warhol lo fotografa nella sua Factory con le colonne, le sedie e perfino il soffitto ricoperti di argento: “Ciò che di Warhol mi colpì – dirà poi – era la sua totale condiscendenza ad ogni mia decisione: sono certo che qualsiasi cosa gli avessi chiesto, l’avrebbe fatta”. L’elegante Barnett Newman seduto o a passeggiare davanti ad una grande tela bianca, a indicare una meticolosa preparazione prima di iniziare a dipingere. Roy Lichtenstein sta su una scala a dipingere la sua “Grande pennellata” e infine Robert Rauschenberg con gli amici a cena, nel suo grande studio pieno di oggetti di tutti i generi.
Sul finire del 1967 ne nasce una mostra, curata da Hendel Teicher, con più di cento fotografie: “Ugo Mulas: New York – The New Art Scene”. Un libro che ho sempre desiderato avere nella mia biblioteca. Il titolo rimanda proprio la stessa cosa che dicevo più sopra: Manhattan diventa il palcoscenico, la scena, dove si muovono gli artisti che ci raccontano in maniera esemplare quel mondo che ha così cambiato, non so ancora se in meglio o in peggio, il modo di concepire l’arte in tutte le sue forme.

E torniamo alle domande; a una Mulas risponde per davvero, sul tipo di pellicola che usa: “Il B/N mi interessa di più per una ragione molto elementare, il colore sembra più falso proprio perché dal colore ci si aspetta la verità, ma sono i colori che la Kodak prepara nell’emulsione, il cielo diventa di quel blu che ci è stato messo dalla Kodak (oggi si potrebbe dire quello che invita a metterci il fotoritocco digitale). Col B/N sai già che ti trovi di fronte ad una astrazione, sai già in partenza che fai una cosa che non è naturalistica, perché dai equivalenti neri, bianchi, grigi a quelli che sono poi i colori e quindi questa consapevolezza dell’artificio ti aiuta poi ad accettare il risultato.
Col B/N il discorso è più ideologico, mentale, il B/N è più un mezzo, un mezzo per fare un discorso, mentre il colore diventa fine a se stesso”. Una volta fecero una domanda simile a Olivo Barbieri, che rispose: “Io fotografo a colori perché il mondo è a colori!”. Mi venne voglia di affermare che avrebbe, allora, dovuto fare dei film visto che il mondo è sì a colori, ma anche in movimento. Quelle domande a cui invece faccio fatica a rispondere sono quelle che mi pongo tutte le volte che guardo le 14 immagini che stanno sotto il nome di “Verifiche”. Mulas le iniziò quando i medici gli diedero un paio di anni di vita. Lui venne a mancare nel 1973, ma quel lascito testamentario sta ancora lì ad interrogare. E non solo me.
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