Prima pensare poi scattare

Nell’autunno 1979 l’Assessorato alle Istituzioni culturali del Comune di Reggio Emilia inaugurò la mostra “Paolo Monti – Trent’anni di fotografia 1948-1978”. La sede era quella storica sotto l’isolato San Rocco. Quelli della mia età lo ricordano bene come il luogo dove si allestivano le più importanti iniziative culturali organizzate dai nostri amministratori: “La memoria della Città” del 1981, con il monumentale catalogo introdotto da Umberto Eco, è un esempio che vale per tutti.

La mostra, promossa dall’allora assessore Giuseppe Gherpelli e curata nell’allestimento dallo stesso Monti, era presentata da un catalogo con testo di Giuseppe Turroni, che nell’introduzione recitava: “Per i giovani e i giovanissimi che si avvicinano alla fotografia, guidati da interessi culturali ed estetici, la rassegna antologica delle opere di Paolo Monti, dai primi ritratti del 1949 ai più recenti ‘chimigrammi’ e alle immagini ottenute attraverso gli effetti di diffrazione della luce e dello sfocamento totale, rappresenta senza dubbio un’occasione unica per vedere e capire la lezione di un autentico, irripetibile protagonista della nostra fotografia di questi burrascosi decenni”. D’altro canto Italo Zannier, analizzando il mondo artistico di quei decenni, definisce Monti addirittura ‘magistrale’ nel catalogo della imponente mostra “The Italian Metamorphosis 1943-1968” organizzata a fine 1994 dal Guggenheim Museum di New York.

Paolo Monti a Venezia, foto di Gianni Barengo Gardin, 1959

Paolo Monti nasce a Novara l’11 agosto 1908 in una famiglia originaria della Val d’Ossola. Il padre Romeo, funzionario di banca, è un buon dilettante fotografo in un tempo dove l’arte fotografica si dibatteva in grandi difficoltà tecniche. È in quel terreno che Paolo inizia ad affondare le radici di una passione che lo accompagnerà per tutta le vita: “Erano gli anni – dirà più tardi – delle lastre fragili, pesanti e costose”. Nel 1930 si laurea in Economia politica alla Bocconi di Milano e nel 1936 viene assunto alla Montecatini di Mestre come dirigente. Lascia l’incarico nel 1945 per approdare al Consorzio agrario della Regione veneta. L’incontro con le calli e i canali della città lagunare è affascinante: “Venezia era per me una città così eccezionale che mi eccitava in molte direzione del conoscere e del fare, soprattutto del fare fotografie”.

Monti, L’angelo della morte, Venezia, 1951

La fine della guerra vede l’inizio di un importante contraddittorio che coinvolge tutti i maggiori fotografi amatori e professionisti italiani (la distinzione non era allora e non vuole essere tuttora una qualifica). Per capirci per benino, su un tema che ha attanagliato per decenni la storia della fotografia italiana (dilettante/amatore – professionista), trascrivo una parte dell’introduzione Italo Zannier scrive per i tipi di Marsilio nel 1980 in Trent’anni di fotografia a Venezia – il circolo ‘la Gondola’ 1948-1978:

“…Questo dibattito sull’arte fotografica è ancora in atto, ma venne a suo tempo lasciato alle cure dei dilettanti, eleggendoli in tal modo a tenutari della «fotografia artistica», mentre i professionisti, per buona sorte, hanno preferito occuparsi delle loro «volgari» operazioni, al servizio e all’urgenza dell’informazione, mediante immagini che vengono quotidianamente utilizzate e veicolate attraverso i canali della comunicazione visiva, non solo del giornalismo, della pubblicità o dell’editoria, ma anche della fotografia «povera» (cartolina, fototessera, cerimonia ecc.) nient’affatto secondaria nell’ambito della cultura di massa”. In soldoni, per Zannier, i dilettanti/amatori erano gli artisti, mentre i professionisti erano dei manovali, molti anche bravi, assoldati.

In questo clima a Milano, nel 1947, nasce il “Gruppo fotografico La Bussola”. Fondato da Giuseppe Cavalli pubblica, sulla rivista Ferrania, un manifesto che si ripropone di: “…promuovere la fotografia come arte dal punto di vista professionale (perciò fotografo = artista ndr) e non semplicemente documentario”. Vi aderiscono Mario Finazzi, Ferruccio Leiss, Federico Vender e Luigi Veronesi. Nello stesso anno Paolo Monti, con Gino Bolognini, Luciano Scattola e Alfredo Bresciani, fonda a Venezia il circolo “La Gondola”, contrapponendo istanze neorealiste ai formalismi della Bussola. L’anno successivo viene fondata a Torino la FIAF (Federazione Italiana Associazioni Fotografiche) e in Italia i circoli vengono su come i funghi dopo un temporale d’estate. Ne nascono dibattiti pubblicati sulle riviste, ci si confronta come nei cenacoli di una volta e quando non si va d’accordo, se ne fondano di nuovi (Cavalli nel 1954 ne fonderà un altro a Senigallia dopo l’incontro con Mario Giacomelli). Il sabato pomeriggio ci si ritrova nei negozi di fotografia a discutere di immagini e di obiettivi, di toni alti o toni bassi, di chimica e di carte da stampa.

Per darvi ancora un’idea del clima, trascrivo parte di una lettera, datata 23 gennaio 1948, inviata a Giuseppe Cavalli da Luigi Veronesi: “Evviva la Bussola! Al concorso Ferrania la Bussola si è piazzata molto bene e ne sono contentissimo, bravi. Ora poi aspettiamo gli attacchi degli avversari, non dubitare che ci daranno battaglia e come! L’aria al Circolo Fotografico Milanese è tutt’altro che serena (tanto per tua norma Pellegrini – era il presidente del circolo, ndr – e Bertoglio, tanto per farti due nomini, sono stati bocciati, figurati le ire!)”.

Sono tempi in cui, mancando in Italia scuole di fotografia, se ci volevi provare dovevi passare da lì e da lì infatti sono passati Fulvio Roiter, Gianni Berengo Gardin, Mario Giacomelli, Italo Zannier, Piergiorgio Branzi e altri innumerevoli artisti.

A Reggio sono passati da lì un po’ tutti, anche Farri e Ascolini, tanto per fare due nomi, mentre Ghirri no, era molto più impegnato a guardare i ‘maestri’ d’oltre Oceano. Varrebbe veramente la pena di andarsi a vedere i cataloghi dei concorsi di quegli anni, per rendersi conto della effettiva qualità delle immagini che si producevano.

Colonna in Piazza San Marco, 1951
Milano, 1953

Gli anni in cui la figura di Paolo Monti emerge in questo panorama culturale, che si occupa dell’arte fotografica, sono quindi quelli in cui ci si misura partecipando con le immagini ai concorsi fotografici organizzati, da questi circoli, in giro per la penisola, ma non solo. Le buste con i 30×40 in b/n o le scatoline con le diapositive a colori 24×36, arrivano anche in tutt’Europa, in Oriente e nelle Americhe. Se volevi dei riscontri dovevi superare l’esame di una giuria.

Infatti poco valeva se le tue opere le facevi vedere agli amici o in qualche circolo fotografico. Con i primi non c’era problema, erano sempre belle e tu eri sempre bravo, mentre con i secondi nascevano sempre delle discussioni del tipo: io l’avrei fatta così o dovevi tagliare quella parte, oppure è troppo contrastata o qualcuno saltava su a dire che dovevi sfocare lo sfondo, insomma non si cavava mai il ragno dal buco.

Con i concorsi l’esame era più drastico e semplice. Dopo la riunione della giuria, se le tue fotografie erano piaciute, ti arrivava una semplice comunicazione con il risultato: ammessa, segnalata o premiata, con un riferimento a una delle fotografie o alla serie completa. Se non arrivava niente il significato era palese. Ricordo bene, nei pochi anni in cui partecipavo ai concorsi, l’ansia con cui aspettavo quella risposta. Ammessa andava bene, segnalata ancora meglio, ma se arrivava il premio… Insomma hai voglia poi sederti a discutere nei circoli il perché o il per come, ai concorsi era come superare un esame all’università: tu ce l’avevi fatta, l’altro no, punto. A Monti i cartoncini con l’esito arrivavano praticamente sempre.

Nel 1953, con la sicurezza delle numerose collaborazioni avviate con riviste di architettura e design, Paolo si licenzia e si trasferisce a Milano, abbandona il campo amatoriale e la fotografia diventa la sua professione. Iniziano anni di intenso lavoro; le sue foto vengono pubblicate in più di 200 volumi riguardanti regioni, città, artisti e architetti. Negli anni Sessanta collabora con la Storia della letteratura di Garzanti e inizia un censimento fotografico (prima volta in Italia e fors’anche in Europa) delle valli appenniniche e dei centri storici dell’Emilia Romagna.

Piccola parentesi: lavorò anche a Reggio e le sue immagini esterne del Teatro Municipale “Romolo Valli” sono state utilizzate, posso dire con soddisfazione accanto alle mie, nel volume “Immagini di pietra” sul restauro delle statue che ornano la facciata. In una di esse si intravede anche la fontana che ornava l’antistante piazza, prima che una lungimirante giunta la asfaltasse con delle mattonelle di Luserna.

Reggio nell’Emilia, 1980

Gli anni Settanta lo vedono partecipare alla stesura della Storia dell’Arte Italiana di Einaudi e insegnare Tecnica ed Estetica dell’Immagine al DAMS dell’Università di Bologna. Basta così, continuare con l’elenco delle cose fatte da Monti risulta noioso, mentre è molto interessante sentire cosa ha da dire sul tema che dà il titolo a questo pezzo, prima pensare poi scattare: “Una cosa che secondo me bisogna fare quando si fanno fotografie è non accontentarsi della prima visione, cioè occorre girare attorno alle cose e individuare più punti di vista. (…)

Non bisogna aver fretta, né accettare la prima risposta dell’occhio, perché quest’ultimo è molto più frettoloso del cervello. Girando intorno all’oggetto da fotografare l’occhio vede molte soluzioni e poi si può decidere per la migliore. Ora, invece, data la poca fatica con cui si fanno le fotografie, c’è una estrema facilità a scattare, con il risultato di fotografie brutte o inutili. (…) Occorre agire diversamente: prima pensare e poi scattare la fotografia. D’altra parte le cose che io ho fotografato, e che anche voi fotograferete, sono di un tale interesse che a guardarle bene ci si guadagna sempre (…)”.

Oh, ragazzi, sembra essere stato scritto oggi. Monti lo dice in un seminario a Bologna nel 1981 ed il digitale non era ancora arrivato.
A buon intenditore…

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