Abbiamo lasciato la Arbus a ‘caccia’ per le strade di New York e nei viottoli del Central Park e riprendiamo da lì.
Diane scatta più e più volte, la sua borsa a tracolla contiene sempre parecchie pellicole, finché non trova quella immagine che la soddisfa. Una fotografia scattata al Central Park nel 1962 mostra, meglio di ogni parola, il suo modo di lavorare.
La allego assieme al foglio di provini a contatto dell’intero rullino. L’immagine, che andrà poi ad ingrandire, è la numero 8, il rullo 120 permetteva 12 scatti nel formato 6×6 della sua Mamiya. È una delle fotografie più famose di Diane Arbus, lei stessa la mostrava spesso nelle lezioni che teneva.
Negli altri 10 scatti fatti al bambino questi è sorridente, a volte in posa con la mano sul fianco o con le mani appoggiate ad una fontanella, lo sfondo cambia spesso, facendoci capire che o lo seguiva con l’obiettivo mentre si spostava o gli chiedeva lei stessa di spostarsi. Quasi alla fine della ‘seduta di ritratto’ il bambino si sfoga in quel un gesto di rabbia che diventa per Diane l’immagine da ingrandire.
Non si saprà mai se sia stata lei a provocarlo o sia stato il bambino che si sia stancato, chiedendole con quel gesto di piantarla. Studiando la figura della Arbus propendo, nonostante il suo modo di porsi timido e angelico, per la prima ipotesi. In effetti è stata a volte accusata di diventare aggressiva e prepotente da alcuni suoi soggetti, mentre al contrario per altri era sempre timida, gentile e molto garbata.
Continua, allo stesso tempo, il lavoro nel campo della moda; conosce Robert Frank e Louis Faurer. Nei corridoi della Condé Nast si ferma spesso a scambiare idee con Richard Avedon o Irving Penn, ma è soprattutto l’incontro con Lisette Model che cambia tutto. Nata a Vienna nel 1906 da un padre milionario mezzo italiano e mezzo austriaco e sposato con una affascinante francese, la Model a 20 anni va a studiare canto a Parigi, inizia anche a dipingere, ma senza successo.
Con la morte del padre e con la guerra, la sua famiglia era di origine ebraica, perde tutta la sua ricchezza e la necessità la porta a lavorare come tecnica di camera oscura, e inizia a scattare immagini. In cerca di fortuna, come tanti allora, sbarca a New York nel 1941 e la trova esponendo le sue fotografie scattate in Francia e in Italia. Il solito Brodovitch la chiamò a lavorare a Harper’s Bazaar, ma smise presto di fare fotografie per passare all’insegnamento nel 1955 grazie all’interessamento di Ansel Adams. Sono anni difficili, perché viene accusata dell’FBI di fare parte, lei lo negò sempre, di una organizzazione dichiarata comunista e antiamericana, la ‘Photo League’; erano gli anni complicati del maccartismo.
Nel 1958 Diane si iscrive alle lezioni di Lisette e ne nasce un’intensa relazione mai interrotta. È allora che la Arbus trova finalmente la sua strada: fotografare “La parte nascosta di ognuno di noi”, come dirà molto più tardi sua figlia Doon. Il resto della storia la raccontano le sue fotografie. Analizziamone un’altra per capire meglio.
Nel giugno 1970 a Peter Crookston, prima vicedirettore del Sunday Times Magazine poi direttore della rivista Nova, a cui Diane aveva lavorato a diversi progetti, scrive: “Sono tornata indietro e ho fatto una foto che volevo fare qualche anno fa per il vostro numero sulla famiglia. Meravigliosa.” La fotografia ha per titolo: ‘Un gigante ebreo a casa con i suoi genitori nel Bronx, NY, 1970’, la allego con il foglio dei provini a contatto.
Quello che sceglierà per l’ingrandimento, e che definisce nella lettera meraviglioso, è lo scatto numero 1. Immagino che Diane appena entrata si sia trovata il gigante a sinistra ed i genitori a destra, il lampo parte immediatamente congelando lo sguardo della madre rivolto verso l’alto a fissare, quasi incredula, la creatura che ha tenuto in grembo per nove mesi e che adesso la sovrasta di quasi un metro. È la foto perfetta. Scatta le altre 11 fotografie praticamente tutte uguali, il gigante al centro con i genitori uno da una parte e uno dall’altra, quasi a giustificare l’appuntamento per il servizio. Anzi in 10 di esse le mani del gigante, appoggiate sulle spalle dei genitori, non cambiano assolutamente posizione. Diane le scatta una dietro all’altra come se avesse fretta di finire, perché credo sapesse già di aver raggiunto lo scopo.
Capitò una cosa simile qualche anno fa anche a me. Mi avevano dato l’incarico di realizzare un reportage fotografico nelle strutture del Comune di Reggio Emilia che accolgono gli anziani. Il lavoro era quasi finito, mancava solamente di documentare l’assistenza domiciliare.
Avevo appuntamento alle 7 del mattino a casa della persona da assistere. Entrai nella stanza da letto mentre due infermiere, una a destra e l’altra a sinistra, stavano lavando un signore anziano seduto, la luce entrando dalla finestra a destra lo illuminava e una mano ne asciugava dolcemente il viso con un panno. Alzai la macchina fotografica e scattai la fotografia che poi venne stampata sul libro. Ne feci altre, ma uscendo sapevo quale era quella perfetta.
Studiando le fotografie di Diane Arbus ho sempre pensato, non dico a un parallelo, ma almeno a un nesso con “Les Fleurs du mal”, il capolavoro del poeta francese Charles Baudelaire. La prima edizione uscì a Parigi nel giugno 1857 e fu quasi subito messa all’indice, perché giudicata oltraggiosa per la morale pubblica e religiosa del tempo. Il poeta e l’editore furono costretti a pagare una multa e a sopprimere sei poesie, che vennero rimosse nell’edizione del 1861, peraltro arricchita di ulteriori 35 liriche.
Una sorte più o meno simile capitò anche alla Arbus quando nel febbraio di 110 anni dopo, nel 1967, nelle sale del Museum of Modern Art di New York si inaugurò la mostra “New Documents”, curata da John Szarkowski, che esponeva le immagini di Garry Winogrand, di Lee Friedlander e le sue.
Fu l’unica volta che le sue fotografie furono attaccate al muro, come dicevamo nella prima puntata. La sera dell’inaugurazione c’era tutto il ‘gota’ del mondo culturale newyorkese: Andy Warhol e il regista Emile de Antonio, i fotografi Berenice Abbot, Frank, Evans, Avedon, Bruce Davidson, e la Lisette Model, lo storico dell’arte Henry Geldzahler e poi Marvin Israel, Alexey Brodovitch eccetera, insomma le sale erano stracolme di gente.
Le trentadue immagini della Arbus occupavano un’unica stanza, la small gallery, mentre Winogrand e Friedlander erano riuniti in un secondo locale a forma di elle. Ma non furono le fotografie di questi ultimi a catturare l’attenzione, la parte del leone la fecero i ritratti di Diane.
La gente si accalcava davanti alle sue grandi stampe quadrate, spesso rimanendone disturbata e a volte addirittura disgustata. Capitò anche di dover ripulire alcune immagini dagli sputi di qualche visitatore. La ‘stravaganza’ delle persone ritratte non raccoglieva consensi, se non in qualche addetto ai lavori. Tiepide furono in genere le reazioni dei fotografi e degli artisti presenti, dure le recensioni apparse sulla stampa nei giorni successivi. Solo una parte dei critici si schierò dalla sua, primo fra tutti Szarkowski che sottolineò come la Arbus avesse portato all’attenzione di tutti la “nostra umana imperfezione”. Molti la accusarono di essere la fotografa dei mostri, degli stravaganti, degli eccentrici e dei pervertiti. Io non ho mai pensato questo, anzi l’ho da sempre considerata un genio assoluto, ma in effetti poteva sembrare tutto questo. Allo stesso modo la pensava Richard Avedon che ebbe a dire più tardi: “Nulla nella sua vita, nelle sue fotografie e nella sua morte è stato casuale o comune. Tutto quello che le accadeva sembrava misterioso, decisivo ed immaginabile, naturalmente non per lei. E questo capita solo ai geni”.
Un’analisi più approfondita del suo lavoro arriva nel 2003 con la pubblicazione di “Revelations”, edita da Random House e curata dalla figlia Doon.
A pagina 18 del libro è riportato un passaggio sottolineato da Diane nella sua copia delle “Opere di Platone” a cura di Irwin Edman, uscito nel 1928 per i tipi della Modern Library (lei ed Allan erano avidi lettori e nella loro biblioteca c’erano testi, oltre che di Platone, dei filosofi Marco Aurelio, Tommaso d’Aquino, Spinosa, Schopenhauer, Kierkegaard, di scrittori come Dostoevskij, Melville, Conrad e Gogol e di poeti, Donne, Blake, Rilke e Yeats). Quello sottolineato è un passo dell’Eutifròne – tratta il tema della pietà – dove Socrate fra l’altro dice: “Una cosa non è vista perché è visibile, ma al contrario, è visibile perché è vista”.
In una delle sue lezioni tenute poco prima della morte – fu trovata con i polsi tagliati nella vasca da bagno del suo appartamento del Greenwich Village il 26 luglio 1971 – dirà infatti: “Credo davvero che ci siano cose che nessuno vedrebbe se non le fotografassi”.
Questa breve frase ci racconta quale fosse il modo di pensare e di lavorare della fotografa americana.
Davanti alle cose che nessuno vuole vedere possiamo, appunto, fare così: voltarci dall’altra parte, come presi quasi dalla paura di esserne contaminati, oppure documentarle, come ha fatto nella sua breve vita Diane Arbus, ma c’è anche chi cerca di prendersene cura come ha fatto durante tutta la sua lunga vita una piccola suora albanese, per tutti Madre Teresa.
Bene, adesso la pianto sennò di puntate ne scrivo tre, ma, che volete, è l’autore che preferisco. In fondo anch’io ho la mia umana imperfezione.