La nostra umana imperfezione (prima parte)

Ho dedicato due lunghe puntate, e di questo spero mi perdonerete, al fotografo Robert Frank, sottolineando il fatto che di tutta la sua produzione artistica rimane, oltre ovviamente alle sue stampe originali, praticamente solo un libro: quell’assoluto capolavoro che è “The Americans”.

Il resto dei suoi tentativi, come ho scritto, prende polvere nelle biblioteche di qualche istituzione. Beh, siccome perseverare non sempre è diabolico, farò la stessa cosa per un altro artista americano, suo contemporaneo, che di libri nella sua breve vita non ne ha pubblicato nemmeno uno, avrei dovuto usare il femminile perché la persona in questione è Diane Arbus. Dirò di più, le sue fotografie vennero sì pubblicate su tante riviste, ma esposte solo una volta e neanche in una personale, perché condivise le sale con altri due fotografi, ma di questo ne parlerò più avanti.

Solo dopo la sua morte, si tolse la vita a 48 anni, arrivò il successo, e oggi se ti vuoi appendere in casa una fotografia stampata da lei, e non una successiva tirata oggi dall’unica persona che ha l’autorizzazione di maneggiare le sue negative, Neil Selkirk, e che all’asta vengono vendute qualche migliaio di dollari, devi tirare fuori dal portafoglio ben oltre 100.000 biglietti verdi (andate a vedervi i prezzi delle aste passate di Sotheby’s) per una delle sue immagini più famose, come quella delle due gemelle o quella del gigante ebreo ritratto insieme ai suoi genitori.

Gemelle identiche, Roselle, N.J., 1967
Gemelle identiche, asta Phillips 2 aprile 2013

La storia dell’arte è piena di esempi simili: artisti che facevano fatica a tirare a campare e il cui vero valore è stato compreso solo dopo la morte; un esempio per tutti, per rimanere nel campo della fotografia, è Luigi Ghirri, sempre alla ricerca di denaro, perché tanto guadagnava tanto spendeva in iniziative fotografiche: oggi i suoi libri si ristampano e le sue fotografie se le contendono in parecchi a fior di quattrini.

Per altri la gloria è arrivata mentre erano ancora all’opera, mentre altri ancora cercano ostinatamente la celebrazione in vita, per essere poi velocemente dimenticati quando non sono più fra noi. Il tempo infatti è sempre un severo maestro.

Diane Nemerov nasce a New York il 14 marzo del 1923 da una ricca famiglia ebrea di origine russe. Sua madre Gertrude, sposata con David Nemerov, era la figlia dei proprietari del grande emporio di pellicceria e articoli di lusso Russek’s sulla quinta strada. Seconda di tre figli, era la preferita in famiglia; Howard, il maggiore, si affermò come poeta, mentre la più piccola, Renée, ottenne un discreto successo con scultrice.

Crescere in un ambiente agiato non è sempre semplice e a volte può essere addirittura complicato: “Una delle cose di cui ho sofferto da bambina – dirà in seguito – è che non ho mai sentito le avversità. Sono cresciuta attorniata da un senso di agiatezza, che potevo sentire solo come irrealtà. E il senso di essere immune dalle privazioni era, per quanto ridicolo sembra, doloroso”.

Diane cresce così, coccolata e lontana da ogni avversità, con un padre sempre occupato dal lavoro e con la madre preda della depressione; questo senso di irrealtà la porterà a cercare con la sua macchina fotografica altrove il mondo per lei reale. Era una ragazzina piccola e delicata, snella e con grandi occhi verdi; le persone che incontrava rimanevano affascinate da lei e lei ne rimaneva a sua volta sempre colpita.

A 13 anni Diane si innamora di Allan Arbus, un commesso del reparto pubblicità dell’emporio dei suoi genitori, e dopo qualche mese comunica in famiglia che vuole sposarlo subito. La risposta fu assolutamente no e soprattutto il padre fece di tutto per separare e alla fine dissuadere la giovane coppia.

Ma ecco per Diane, come dirà in seguito, Allan era “l’uomo più bello che avesse mai visto” e continuarono per anni a vedersi quasi sempre di nascosto. Il 10 aprile 1941, meno di un mese dopo aver compiuto 18 anni, Diane Nemerov sposò Allan Arbus nell’ufficio di un rabbino.
Lei – scriverà poi Patricia Bosworth in una biografia non autorizzata – aveva un vestito blu chiaro e alla breve cerimonia erano presenti solo i parenti stretti.

Nel 1943 Allan si arruola e dopo l’addestramento viene spedito nel New Jersey a studiare fotografia. Vivevano insieme in una stanza a pochi chilometri dalla base, nel bagno allestirono una piccola camera oscura e tutte le sere Allan insegnava a Diane tutto quello che aveva imparato durante il giorno. A dire il vero insieme avevano lavorato come fotografi di moda già nel 1941, ottenendo un discreto successo, così dopo il congedo di Allan decisero di tentare nuovamente insieme quella strada.

Li aiutò David Nemerov, nel frattempo diventato il capo dei magazzini Russek’s, non solo pagando tutta la nuova attrezzatura, ma dando loro anche l’incarico di fotografare tutta la nuova collezione di moda e di pellicce per le varie pubblicità sui giornali del tempo. Inizia così un lungo periodo che vede impegnati i due giovani nella fotografia di moda, pubblicando per Glamour, Harper’s Bazaar, Seventeen, Vogue, eccetera.

Autoritratto di Allan e Diane Arbus apparso su Glamour, 1947

Dietro il vetro smerigliato ci stava Allan, ma era lei che dava il tocco finale, riuscendo sempre a inventare piccoli dettagli che rendevano la fotografia particolarmente riuscita.

Ma per Diane il dover dividersi fra il lavoro in studio col marito e la cura premurosa della figlia Doon, nata nell’aprile del 1945 (la seconda, Amy, nascerà nel 1954) la porta a una profonda insoddisfazione. Le fotografie per le copertine patinate delle riviste di moda diventano ogni giorno più lontane da quella realtà che a lei interessa. È proprio il marito che, vedendo la sua insoddisfazione, la spinge a tentare una sua ricerca personale.

In passato Diane aveva studiato fotografia con Berenice Abbot; inizia a seguire i consigli del direttore artistico di Harper’s Bazaar Alex Brodovitch, che la spinge a studiare i ritratti di Brassaï, di Bill Brandt, di Weegee, di August Sander e della contemporanea Lisette Model. Prende sempre più spesso in mano la piccola Leica 24×36 con cui scatta tantissimi ritratti durante le affollate riunioni familiari, continuando a farlo anche quando ha finito la pellicola.

La macchina fotografica diventa quasi un modo per nascondersi agli altri e poter così cogliere meglio l’essenza delle persone e del momento inquadrato.

È il periodo in cui comincia a passeggiare per le strade e per i parchi di New York scattando ritratti; si ferma a parlare con le persone e le intrattiene, quello che le interessa non è ciò che appare in un primo momento, ma catturare la parte nascosta che ognuno tenta di occultare, quel lato di sé che ogni individuo mostra solo in particolari circostanze.

“Se fossi solo curiosa – dirà in una delle lezioni tenute nel 1971 alla Rhode Island School of Design – sarebbe molto difficile dire a qualcuno: ‘Voglio venire a casa tua e farti parlare con me e raccontarmi la storia della tua vita’. Voglio dire che la gente direbbe: ‘Sei pazza’. In più si terranno ben nascosti. Ma la fotocamera è una specie di licenza. Un sacco di persone, vogliono che si presti loro tanta attenzione”. Questo è quello che le interessa e che cercherà sempre durante tutta la sua ricerca.

Abbandona presto il formato 35 mm; la troppa grana negli ingrandimenti, che una volta diceva di amare visceralmente, non la soddisfa più: “All’inizio, quando fotografavo, facevo cose molto sgranate. La grana creava una specie di arazzo di tutti questi piccoli punti e tutto veniva tradotto per mezzo di questi piccoli punti.

La pelle sarebbe stata uguale all’acqua e al cielo e si aveva a che fare soprattutto con il buio e la luce… Ma poi volevo vedere le differenze tra le cose… volevo vedere la differenza tra carne e materia, le densità dei diversi tipi di cose”.

Coppia che discute, Coney Island, NY, 1960

Passa al formato superiore, il 6×6, compra una Mamiya C 330 su cui monta un flash; il lampo e il formato più grande le sembrano più adatti a cogliere tutti quei particolari che sfuggivano confondendosi nella grana della pellicola del piccolo formato.
Nelle strade e per i parchi della città la gente si fa ritrarre volentieri da questa figura esile con un viso da bambina: la grossa Mamiya appesa al collo con un grande flash montato accanto non incute timore.

Diane Arbus a Central Park, N.Y.C.. 1967, foto di Tod Papageorge

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