Se dovessi elencare i componenti della mia famiglia non potrei non mettere il Milan. Non è una questione di tifo. Non è una questione da calcio mania. Semplicemente il Milan c’è sempre stato. Complice mio papà che ci ha giocato, complici i suoi racconti sugli aneddoti del Milan di Rocco o le parole di Liedholm suo allenatore e maestro, ma in casa mia lo stile Milan si è sempre respirato.
Effettivamente quando prendo in mano quella numero 6, non quella dell’eterno Baresi, ma quella di lana, con le righe rosso-nere striminzite e sottili, che indossava mio papà nei lontanissimi anni 60, la sensazione è sempre la solita: è come prendere in mano un pezzo della storia della propria famiglia.
Ci ha provato il mio migliore amico di quando ero piccolo, il mio idolo indiscusso, a farmi tifare Inter come lui. E ammetto che avevo sbandato. Tra lui e i tedeschi dell’Inter la sponda nerazzurra mi aveva conquistato. Ma dentro respiravo ancora in rossonero e a farmelo capire è stato un certo Marco Van Basten, uno che quando toccava il pallone danzava, uno che… di calciatori così non ce ne sono proprio più. Con buona pace del mio vicino e per la mia grande gioia il rossonero ha ripreso a tinteggiare tutto il resto della mia vita.
Crescere coi racconti su Rivera, vedere il Milan dei tre olandesi di Sacchi, o quello degli Invincibili targato Fabio Capello ha reso questo club un fratello maggiore. Quante volte guardando le partite con mia nonna su DUE+, come chiamava lei Telepiù agli albori delle televisioni nel calcio, l’ho fatta saltare sulla sedia mentre Maldini e c. inanellavano vittorie su vittorie.
“Chi ha segnato?” mi chiedeva lei, dopo averla svegliata con il mio urlo dal suo “passacuore” delle ore 22.
“Weah, nonna!”
“Ma chi, quello nero!?!? Grande Milan” … e via che si riappoggiava sul tavolo a dormire.
E poi gli anni di interregno quando non si vinceva, ma il Milan c’era lo stesso: “A Milanello si faceva…” “A Milanello ci dicevano…” e sempre così, con quell’insegnamento paterno di chi dal calcio ha sempre preso spunto per farne metafora della vita.
E poi arrivano gli anni dell’università col Milan di Carletto Ancelotti, il reggiolese sulla panchina più prestigiosa del mondo, con il ritorno dei trionfi in Champions e quella maledetta notte di Istanbul. L’ultima volta in cui ho pianto per una partita. Perché il Milan, come tutti quelli di famiglia, quella sera ha fatto soffrire. Quanta rabbia verso Carletto e verso i ragazzi. Il fratellone maggiore che ti “tradisce”… proprio sul più bello, mentre domini una partita 3-0.
E come in tutte le famiglie, quelle vere, ci si è stretti, ci si è fatti forza gli uni gli altri e Istanbul è stata vendicata con la meravigliosa notte di Atene, l’ultimo acuto in Champions. Un patto di famiglia: riprendersi la coppa. E così è stato. Anche questo è stato un esempio.
Salutato Carletto e dopo la parentesi di Allegri sono arrivati gli anni più anonimi, un po’ come se avessimo perso l’identità di famiglia, un po’ come se il fratellone fosse uscito rinnegando le sue origini, inseguendo sirene che non appartengono al DNA Milan.
Fino al ritorno di uno che per davvero il Milan ce l’ha come affare di famiglia, come affare di cuore, uno che per davvero sa cosa significhi lo stile Milan: un certo Paolo Maldini che, come da calciatore, ha ripreso per mano la squadra e ha riscoperto cosa vuol dire essere da Milan.
E visto che il mio papà ha giocato col grande Cesare, padre di Paolo, posso tranquillamente affermare, che per la proprietà transitiva dell’essere rossonero, anche per me il Milan è una questione di famiglia.
Bello vincere questo scudetto così inaspettato ma così meritato!