Il mio amico Leo Farri

Credo sia giusto dedicare una puntata di Fotosofia a un anno dalla morte di Stanislao Farri, punto di riferimento per tutti i reggiani che dal dopoguerra in poi si sono dedicati alla fotografia.

Leo, così tutti lo chiamavano, l’ho conosciuto, o meglio ho conosciuto le sue fotografie, quando La Banca Agricola e Commerciale di Reggio mi regalò il libro ‘Reggio Emilia di Stanislao Farri’. Era il 1977, attorno a Natale.

Io ero veramente alle prime armi, sia con la reflex, comprata da pochi mesi, sia con gli acidi della camera oscura. Beh, sul primo risguardo scrissi, tutto in maiuscolo e fra virgolette: “Prima di dire che una foto è bella guarda questo libro”. Dopo quasi cinquant’anni non ho ancora cambiato idea.

Quello che lui pensava di me lo scoprii, invece, diversi anni dopo, quando nel 2000 Sandro Parmiggiani chiamò Farri per l’iniziativa di Palazzo Magnani: ‘Le mani pensano’. Si trattava di documentare pittori a livello nazionale del calibro di Concetto Pozzati, Leonardo Rosa, Mario Francesconi, Bruno Chersicla, Davide Benati ecc. ecc. mentre insegnavano ai bambini delle elementari le loro tecniche di pittura. La risposta di Farri, spiana come sempre, fu: “Bisogna che t’ciam Codazzi per cul lavor lè, me al masim ai pitor pos fereg al ritrat!“ Tradotto: “Devi chiamare Codazzi per quel lavoro, io al massimo ai pittori gli faccio il ritratto.” E così successe.

Leonardo Rosa, S. Farri, 2000

Alcuni anni prima mi aveva chiesto di fare un lavoro a Pavullo nel Frignano, dovevo fotografare i restauri del castello in negativo a colori e in medio formato.Il motivo, credo, fosse perché lui aveva in quel formato una Rollei 6×6, il negativo quadrato non permetteva l’orizzontale e il verticale, e di mettere all’opera la sua vecchia Linhof Technika 6×9 non ne aveva tanta voglia. Fui promosso, e da allora Farri, uomo di un pragmatismo assoluto, che prima di darti la sua fiducia ti metteva alla prova, continuò a chiamarmi per altri lavori a quattro mani.

Guastalla, S. Farri. 1955

Abbiamo illustrato diversi numeri monografici della rivista del Parmiggiano-Reggiano, dedicati a bellezze delle provincie in cui viene prodotto il famoso formaggio. Insieme abbiamo progettato un libro sul Mercato coperto di Reggio prima della riqualificazione, ma non se ne fece niente quando i negozianti scoprirono che il libro se lo dovevano pagare loro, avevano capito che ci avrebbe pensato il Comune o qualcun altro. Andò in porto invece il lavoro con i pittori a Palazzo Magnani, ma lì il ‘manico’ ce lo aveva un’altra persona, cioè il sunnominato Parmiggiani.
In effetti credo di poter dire di essere stato l’unico fotografo ad aver firmato dei servizi fotografici con il mio nome accanto al suo, non lo dico per vantarmi, ma sorrido pensando a quello che scrissi sul volume nel lontano 1977, perché mai mi sarei aspettato che andasse finire così. Quello che mi piace ricordare invece è che mi ripeteva spesso che ero bravo, ma il mio problema era che non sapevo di esserlo.

 

L’ape operaia, S. Farri, 1965

Farri veniva a trovarmi nella mia bottega, così la chiamava lui, e io andavo a trovarlo nella sua stalla, così la chiamava lui. Si parlava di fotografi e di fotografia, finché la Vanda, sua moglie, non lo chiamava per pranzo o per la cena con il classico ‘Farri’ urlato dal piano di sopra.

Mi chiedeva anche di comprargli del materiale, pellicole, sviluppo per i negativi o della carta da stampa, usava la baritata dell’Ilford formato 24×30.

Lo facevo sempre in punta di forchetta, badando bene che i prezzi fossero i migliori che trovavo e tanto spendevo, tanto gli chiedevo. Non che fosse taccagno, ma ha sempre avuto un po’ di diffidenza per i commercianti, quindi penso l’avesse anche con me, anche se commerciante non lo ero più da tempo. Squilla il telefono una mattina e Farri mi grida: “Che carta mi hai venduto – infatti Farri il materiale non lo comprava, eri tu che glielo vendevi – è scaduta, vengono tutte macchiate!” Gli rispondo che lo raggiungo per cercare di risolvere il problema. Con le stampe macchiate davanti agli occhi (sul retro di una mi aveva dedicato una scritta a pennarello che recitava: “Amico Codazzi, non è la prima volta che pago con soldi buoni materiale come questo. Ora basta saluti Farri S.”) gli chiedo se usa il bagno d’arresto. Mi risponde che non sa che cosa è. Allora hai usato un fissaggio esaurito gli dico, non gli sto neanche a spiegate che lo sviluppo è una base e il fissaggio è un acido e non vanno tanto d’accordo. Torno in studio, gli porto una bottiglia di acido acetico e tutto si sistema.

Ci sediamo e ci rimettiamo a parlare di fotografi e di fotografia e tutto torna normale quando inizia a raccontarmi che ancora a letto, prima di alzarsi, ha pensato che c’è una fotografia da fare, ma che bisogna andarci ad un determinato orario e con il sole.

Ed è proprio questa la differenza fra un fotografo e un grande fotografo, per il secondo la fotografia è sempre e continuamente in cima ai suoi pensieri: notte e giorno.

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