Riprendo lo sguardo su Robert Frank con la seconda parte del pezzo pubblicato sul numero 12 de La Libertà del 30 marzo scorso.
Con la fine della guerra ed il fiorire dell’economia americana dopo gli anni della Grande depressione, New York diventa quello che era Parigi agli inizi del XX secolo per scrittori, poeti, designer, critici, insomma per gli artisti di ogni genere in cerca di sbocchi per il loro lavoro. I fotografi non sono da meno e iniziano a leggere il mondo in maniera diversa: si abbandona la fotografia documentaria della F.S.A. e il perfetto realismo delle immagini di Ansel Adams e del gruppo f/64, prosperano i lavori innovativi di Richard Avedon e di Irving Penn, i reportage di W. Eugene Smith e le inquietanti immagini Ted Croner, Diane Arbus, Lisette Model e Luis Faurer.
Il MoMA la fa da padrone organizzando a fine anni ’40 e per tutti gli anni ’50 mostre di fotografia contemporanea. Questo è il mondo in cui si immerge Robert Frank al suo arrivo in America. Il connazionale Herbert Matter, fotografo per le pubblicazioni di Condé Nast, lo accoglie per qualche settimana nella sua casa al Greenwich Village, prima che Frank si trasferisse al 53 di East 11th Street, nel cuore del mondo dell’arte newyorkese.

A questo punto mi viene spontanea una considerazione, ovviamente ‘mutatis mutandis’ e senza voler far torto a qualcuno. Come detto più sopra avevano iniziato ad arrivare a New York, già prima della fine della guerra, diversi artisti, alcuni in fuga da Hitler, altri dall’entroterra americano. Arrivano pittori come Franz Kline, l’olandese Willem de Kooning, Robert Motherwell, Jackson Pollock e l’ebreo lettone Mark Rothko, gli scultori Raoul Hague di origine turca e Isamu Noguchi americano di origine giapponese; dei fotografi ne ho parlato: a loro si aggiunsero poeti e scrittori come John Ashbery, Gregory Corso, Allen Ginsberg, Jack Kerouac e Frank O’Hara. Si incontravano nei locali dove suonavano Charlie Parker, Dizzy Gillespie e Thelonious Monk, tutti impegnati a rompere con il passato e ad iniziare una nuova pagina nei vari campi dell’arte.
E le gallerie ed i musei della città, a cominciare dal Museum of Modern Art, cosa fanno? Continuano ad esporre le opere provenienti dal vecchio continente o comunque dall’estero? No, loro credono in questi giovani artisti e le mostre, come già detto, non si contano.
Anche nella nostra provincia, dal dopoguerra in poi, l’arte è fiorita forse più che in altre zone dello stivale; non faccio nomi, risulterebbe noioso come tutti gli elenchi sono. Per un po’ le nostre istituzioni ci hanno creduto e non hanno mancato di supportare i talenti che emergevano organizzando eventi, mostre o rassegne. Oggi non è più così, va di moda il preconfezionato, che se poi arriva dall’estero è ancora meglio. Manca la preparazione culturale? Non so, forse manca quella capacità di lavorare e di mettersi in gioco per calare sulla tavola anche delle carte nostrane.
Ma ritorniamo a Frank, siamo nel 1947 quando presenta il suo portfolio ’40 Fotos’ a Alexey Brodovitch; il guru di Harper’s Bazaar lo assume nello staff con l’incarico di fotografare accessori di moda. Brodovitch incoraggiò Frank ad abbandonare la lenta Rolleiflex, dalla visione a livello del giro vita, a favore della più veloce Leica 35 mm, una macchina fotografica che poteva essere considerata quasi un prolungamento dell’occhio.
Gli insegnò soprattutto a rischiare nelle fotografie che realizzava: “Mi diceva sempre: più grande è il rischio, meglio è – ricorderà Frank in seguito – Uscire con qualcosa che è personale o che non sarà compreso, soddisfare se stessi piuttosto che il pubblico, questa è la cosa importante”. La stessa cosa la diceva anche il buon vecchio Stanislao Farri!

Ma quel mondo popolato da persone per cui l’unica cosa che contava era far profitto non fa per lui. Sempre in quell’anno incontra il fotografo Louis Faurer, ne nasce una profonda amicizia, tutti e due disprezzano la fotografia commerciale e sono invece attirati dal fascino struggente delle strade di New York dove vagabondano fino a notte fonda, quando non la passano nella camera oscura di Louis.
Con Faurer impara presto a stampare i negativi che credeva sbagliati perché sovra o sottoesposti, ad avvicinarsi ai soggetti trovati per strada anche emotivamente, ad odiare la cruda luce dei flash e ad amare la luce ambiente, anche quella fioca dei fumosi locali notturni della Grande Mela.
Così nel giugno del 1948, con i suoi 23 anni e mezzo, lo stare in studio a fotografare oggetti non gli basta, vuole realizzare qualcosa che si avvicini ai tanti libri fotografici che escono a New York in quel periodo, lascia la città ed inizia a viaggiare.
Prima in Europa, poi raggiunge Cuba, Panama e i paesi del Sud America. Realizza a mano tre menabò: ‘Perù’ (uscirà solo nel 2008) e ‘Mary’s Book’ (dedicato a Mary Lockspeiser che sposò l’anno successivo) nel 1949, ‘Black White and Things’ nel 1952 (verrà stampato solo nel 1994 dalla National Gallery di Washington).
Una discreta notorietà arriva con la pubblicazione su Camera, una rivista svizzera diretta da Walter Läubli, di parte del menabò di Mary’s Book: “Il giovane fotografo – afferma Läubli – cattura i semplici fatti comuni dei nostri giorni… in modo così spontaneo con risultati così fedeli alla vita, che le sue fotografie potrebbero essere considerate come immagini documentarie del nostro tempo. Frank ama la verità, il fatto nudo e crudo”.
Le sue fotografie vanno in mostra, la rivista Time lo definisce ‘Poeta con la macchina fotografica’, e le sue immagini finiscono anche su Life. Nel 1952 a Parigi Robert conosce l’editore Delpire, tappa importante e vedremo più avanti perché.
Anche il leggendario Steichen si accorge di lui, acquista ed espone le sue fotografie, lo esorta a “esplorare il sentire e l’atmosfera… a cogliere la vita”. Nell’estate del 1952 esce ‘The Decisive Moment’ di Cartier-Bresson, dove l’autore afferma che le fotografie sono “un’operazione congiunta del cervello, dell’occhio e del cuore”.
È dopo aver visto il libro di HCB che Frank realizza il menabò ‘Black White and Things’; nella prefazione riporta le parole di Antoine de Saint-Exupéry: “È solo con il cuore che si può vedere bene, ciò che è essenziale è invisibile all’occhio”. Frank, vicino agli esistenzialisti europei, ci mette il cuore, Bresson, forse più figlio dell’Illuminismo, ci mette anche la ragione.
Per alcuni anni cerca di pubblicare una sua storia su Life, ma le sue immagini vengono sempre respinte: “Ho sviluppato un enorme disprezzo per Life – spiegò più tardi – che mi ha aiutato. Bisogna essere arrabbiati… Odiavo quelle maledette storie con un inizio e una fine”.
Gli anni ’50 sono quelli in cui la televisione o la rete di oggi non la fanno da padroni, gli avvenimenti che accadono sono conosciuti attraverso i grandi reportage delle riviste illustrate ed il mondo è raccontato dai libri fotografici che vengono, sempre più spesso, dati alle stampe.
Escono nel 1954 ‘Mosca’ e nel 1955 ‘Da una Cina all’altra’ di Henri Cartier-Bresson, sempre nel 1955 ‘USA’ di Emil Schulthess e nel 1956 ‘Life Is Good & Good For You in New York’ di William Klein.
È questo quello che, infine, capisce di volere Frank: raccontare per immagini l’America, il paese che l’ha così affascinato al suo arrivo, ma che ha iniziato a conoscere anche per le sue forti contraddizioni.
Inizia una corrispondenza con il direttore del Dipartimento di Fotografia del MoMA Edward Steichen, che espone il suo lavoro sul minatore del Galles Ben James nella mostra ‘Post-War European Photography’.

Conosce e stringe un’amicizia, che durerà tutta la vita, con il fotografo Walker Evans. Proprio lui lo spinge, nel febbraio del 1955, a fare domanda per una borsa di studio alla John Simon Guggenheim Memorial Foundation.
La ottiene in aprile, anche grazie alle lettere di presentazione di Evans, Steichen, Brodovitch e altri.
Si mette immediatamente in viaggio ed il libro ‘The Americans’ uscirà fuori liscio dall’obiettivo della sua macchina fotografica, proprio come l’asfalto sotto le ruote della sua Ford Business Coupé, comprata usata per il viaggio.
Dopo il primo anno ottiene un nuovo finanziamento dalla Guggenheim per portare a termine il lavoro.
Con l’estate del 1956 iniziò a sviluppare i quasi 800 rulli che aveva scattato, fece i contatti e realizzò circa 1.000 stampe contrassegnandole in rosso con il numero del negativo corrispondente. Il menabò definitivo fu pronto nella primavera dell’anno successivo; tentò di pubblicarlo in America, ma gli editori non erano interessati.
A Parigi Robert Delpire, il suo amico editore francese, accettò di stampare il libro, con le fotocopie disposte sul pavimento del suo ufficio, in poche ore arrivarono alla stesura definitiva.

Mancava solo qualcuno che scrivesse un’introduzione; Frank lo chiese a Jack Kerouac, ma Delpire non accettò di pubblicarla e il libro uscì con il titolo ‘Les Américains’ con le foto intercalate da scritti di Henry Miller, John Dos Passos, William Faulkner, Simone de Beauvoir e altri, quasi tutti molto critici nei confronti degli americani.
Alla sua uscita il libro ricevette poca attenzione in Francia e quasi nessuna dalla critica americana. Alla fine del 1958 Barney Rosset della Grove Press accettò di pubblicare il volume negli Stati Uniti, accettò i fogli stampati in rotocalco dalla francese Draeger Freres, ma tolse tutti i testi e lasciò solo la presentazione di Jack Kerouac.
Il libro venne accolto con indignazione dalla critica contemporanea, venne accusato di essere antiamericano e per niente fotografico. Le riviste del settore parlarono di: “Esposizioni fangose, di orizzonti ubriachi e di sciatteria generale”. John Szarkowski ancora nel 1984 in ‘Looking at Photographs: 100 Pictures from the Collection of the Museum of Modern Art’ pubblicando una sua fotografia, sembra ancora indeciso se trovarsi davanti a un genio o solo a un originale.
Le immagini in effetti mostravano un paese triste, diviso e rigido, malinconico piuttosto che eroico, che coglieva la grande differenza fra il ‘sogno americano’ e la realtà quotidiana. Diane Arbus parlò di ‘cavità’ del cuore della vita di molti americani, o usando le parole dell’introduzione di Jack Kerouac: “ha succhiato una triste poesia dall’America”.
Alla fine ha venduto più di 700.000 copie, e nelle librerie non manca quasi mai, diventando forse il libro di fotografie più venduto al mondo. La sua storia è tutta qui, a voi non resta che passare in biblioteca per andarvelo a vedere o in libreria per andarlo a comprare, che sicuramente è meglio.