Gli americani sotto lo sguardo d’uno svizzero (prima parte)

The Americans

È stato uno dei miei primi acquisti, ma almeno una volta all’anno me lo vado a rivedere e tutte le volte rimango stupito dell’ingenua bellezza delle immagini di “The Americans” di Robert Frank. Né è mancato che, negli anni in cui mi chiamavano a tenere dei corsi di fotografia, sempre ne parlassi per un’intera serata.

Conoscere quale sia stata la genesi di un libro così particolare ed unico nella storia della fotografia credo sia importante, tenendo presente, senza peraltro voler esprimere alcun tipo di giudizio e solo come nota conoscitiva, che Frank ne ha al suo attivo ben pochi altri, nessuno di un tale livello e soprattutto pubblicati molti anni dopo la fama ottenuta con il libro di cui sopra.
Va altresì detto che al culmine della sua notorietà come fotografo, qualche anno dopo la pubblicazione del volume – dato alle stampe prima in Francia col titolo “Les Américains” e poi negli Stati Uniti, e di questo ne riparleremo – si dedicherà al cinema, con tanti applausi della critica ma con scarsi risultati di pubblico.

Alla fotografia ci ritornerà a metà degli anni Settanta, ma i risultati… beh, per farvene un’idea basta scorrere le pagine di “Beirut City Centre”. Il libro raccoglie il risultato di una missione fotografica della fondazione Solidère del 1991, che voleva mostrare al mondo gli effetti della devastazione causati da quindici anni di guerra nel centro della capitale del Libano. I fotografi, invitati dalla scrittrice libanese Dominique Eddé, furono: Gabriele Basilico, René Burri, Raymond Depardon, Fouad Elkoury, Robert Frank e Josef Koudelka. Robert realizzò una serie di Polaroid e dire che poco avevano a che fare con il progetto, significherebbe essere indulgenti. Le assemblò più tardi attaccandole con lo scotch su un quaderno con i fogli a quadretti ed intitolandole “Come Again”, ma riuscì a pubblicarle solo nel 2006 per i tipi di Steidl e non fu sicuramente un successo.

Una pagina del menabò di ‘Come Again’

Robert Louis Frank nasce a Zurigo, da una famiglia di origine ebraica, il 9 novembre 1924, a ridosso di avvenimenti che avrebbero sconvolto non solo l’Europa ma anche il resto del mondo. Il 1929 apre un decennio di disastrosa crisi economica, nel 1933 Hitler viene eletto cancelliere e nel 1935 priva gli ebrei tedeschi dei loro diritti, nel ’36 scoppia la guerra civile spagnola, la ‘Notte dei Cristalli’ è del ’38 e nel 1939 si scatena la seconda guerra mondiale con l’invasione della Cecoslovacchia e della Polonia da parte della Germania nazista.

Il piccolo Robert cresce con il fratello Manfred circondato da tutte queste atrocità, ma la sicurezza fisica della famiglia, vivendo nella neutrale Svizzera, non era in pericolo. Il padre Hermann, nato a Francoforte sul Meno, nonostante godesse di un certo benessere non si è mai sentito completamente a casa a Zurigo, tanto da rifiutarsi di imparare lo svizzero-tedesco: “Ero molto imbarazzato da mio padre, non sapeva parlare come noi”, e gli altri – ricorderà in seguito Robert – “lo prendevano in giro; non voleva sentirci parlare così, diceva che eravamo quasi primitivi, a parlare quella lingua”.
Per questo Hermann era visto con sospetto e persino con ostilità da alcuni nel suo paese d’adozione e nel 1941 per prudenza depositò una cauzione di 10.000 franchi, chiedendo la cittadinanza svizzera per sé e i suoi due figli, per mantenere la sua residenza e i suoi affari a Zurigo.

Tutto questo permise alla famiglia di rimanere al riparo nella cittadina elvetica e Frank riuscì a vivere un’infanzia e un’adolescenza in qualche modo normale, trovando grande gioia e fiducia in se stesso nell’alpinismo e nello sci sulle Alpi.
Tuttavia sperimentare l’antisemitismo di quegl’anni – disse più tardi – creò “una situazione indimenticabile. Ascoltare Hitler alla radio, parlare – minacciare – maledire gli ebrei. È per sempre nella tua mente, come un odore, la voce di quell’uomo o di Göring, o di Goebbels”.

Negli anni ’20 e ’30 la fotografia svizzera, come nel resto dell’Europa, era dominata dal fiorire di tanti fotoreporter spinti dalla diffusione di numerosi periodici e giornali illustrati, ma anche dal modernismo di Laszlo Moholy-Nagy. In questo clima a metà degli anni ’30 si diffonde nel paese un movimento sempre più conservatore del nazionalismo culturale noto come ‘Geistige Landesverteidigung’ (Difesa spirituale della nazione), che culmina nella mostra del 1939 a Zurigo ‘Landesausstellung’.
La fotografia è sempre più vista come uno strumento potente e seducente per comunicare questa ritrovata glorificazione della tradizione svizzera.

Frank fu tra gli oltre dieci milioni di visitatori della mostra e ne fu così affascinato che ci andò più volte. La fotografia la conosceva, suo padre era un abile fotografo dilettante, fin da adolescente si innamorava dei grandi reportage sulle riviste che trovava in casa. Ricorda infatti con chiarezza quelle sulla guerra civile spagnola di Paul Senn pubblicate da Zürcher lllustrierte. Questo entusiasmo lo porta ad annunciare alla famiglia che vuole entrare come apprendista nello studio di Hermann Segesser. Ci va nel gennaio del 1941 ed impara a far funzionare la macchina fotografica, lo sviluppo e la stampa dei negativi, il fotomontaggio ed il ritocco. Nell’estate del 1942 lavora come fotografo di scena in due film e si impratichisce con la profondità di campo e la messa a fuoco. In seguito lavora, sempre a Zurigo, come assistente del fotografo pubblicitario Michael Wolgensinger.

Tutte queste esperienze lo mettono a confronto con gli standard di perfezione nella grafica e nella fotografia svizzera di quel periodo, ma apprende da quest’ultimo un qualcosa che gli rimarrà attaccato per sempre: come fare stampe a contatto dei suoi negativi 6×6 e incollarli su cartoncini, raggruppati per soggetto. Le fotografie così vengono da lui ordinate in modo pragmatico, valuta il significato relativo di ogni scatto, evidenziando quel campo che andrebbe ulteriormente indagato. Nonostante la guerra l’industria editoriale del paese d’oltralpe è florida; Frank così ha modo di visionare libri di fotografi come Paul Senn, dello stesso Wolgensinger e di Jacob Tuggener. In particolare quest’ultimo lo influenzò particolarmente: “Tuggener aveva quella grande qualità di essere uno straniero nel senso di Camus, di vedere il proprio paese come un visitatore”. Ferocemente rigoroso, Tuggener realizzò una settantina di menabò, ma solo tre furono pubblicati: “Lui fissava le regole controllando tutto, e non permetteva mai che la sua arte fosse corrotta dalle idee degli altri”. Jacob Tuggener viveva in un monolocale seminterrato, disdegnava la borghesia e il successo commerciale; per lui lo stile di vita e l’arte erano una cosa sola. Tutto questo segnò fortemente il futuro del giovane fotografo diciannovenne.

Qqueste esperienze si materializzano in “40 Fotos”, un menabò che assembla nel 1946 e che doveva servire come portfolio di presentazione.
La fine della guerra lascia un Frank comunque deluso della rigida prevedibilità del suo paese. Le letture, i film e le opere teatrali che vengono da oltreoceano fanno nascere in lui la voglia di America.

Due pagine del menabò di 40 Fotos 12
Due pagine del menabò di 40 Fotos 12

Nel febbraio dell’anno successivo salpa da Amsterdam con la nave SS James Bennett Moore e arriva a New York. Nella prima lettera ai suoi genitori, datata all’inizio di marzo, scrive: “Non ho mai vissuto così tanto in una settimana come qui. Mi sento come se fossi in un film. Il ritmo è inconcepibile. Questo è davvero un paese libero”.
Il resto alla seconda puntata.

Robert Franz a New York, 1953 (foto Grunzeig Bedrich)

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