Ho conosciuto Don McCullin (Finsbury Park, United Kingdom, 9ottobre 1935) l’undici maggio del 2012, il giorno dell’inaugurazione della mostra, curata da Sandro Parmiggiani, “La pace impossibile – Dalle fotografie di guerra ai paesaggi, 1958-2011” nelle sale di Palazzo Magnani.
Era il giorno dell’inaugurazione e, nonostante la tanta gente, ha trovato il tempo per scambiare due chiacchiere e per augurarmi buona fortuna, firmandomi alcuni cataloghi che da tempo erano nella mia biblioteca, mentre i suoi occhi non smettevano un attimo di scansionare quello che gli stava intorno.
Conoscevo bene, infatti, le sue fotografie, alcune delle quali me le andavo ogni tanto a rivedere perché, sebbene riprendessero morti in guerra o catastrofi naturali, conflitti di religione o carestie, la disperazione davanti alla morte o le povertà dei sobborghi di Londra, avevano la straordinaria forza di raccontare, anche con una sola immagine, la cruda realtà dell’avvenimento.
Un esempio vale per tutti e, per capirci fino in fondo, è la serie di fotografie scattate nel 1969 durante la guerra civile nigeriana, meglio conosciuta come la guerra del Biafra. Un conflitto con dentro un campionario esemplare: politica, potere e sopraffazione, odio razziale e pure la religione. Un conflitto che fece 1,2 milioni di morti, un po’ per le pallottole e un po’ per la fame; ci finì di mezzo, con 10 morti, anche la nostra E.N.I. che era da quelle parti ad estrarre petrolio e gas naturale.
Il tentativo di secessione della regione del Biafra dalla più potente Nigeria durò solo tre anni, e per le decisioni prese da quelli che stanno in alto, ma che raramente ne subiscono le conseguenze, finirono massacrati o uccisi dalla fame più di un milione di esseri umani, come ho già detto. In che modo raccontare tutto questo?
Tanti furono i fotoreporter che ci provarono e di quello schifo ne parlarono tutti i giornali del mondo. Delle tante immagini che Don McCullin scattò ce ne sono due che a mio parere, e non solo, lo fanno in modo esemplare. La prima, intitolata “Patience”, mostra una ragazzina magrissima e nuda, le sue mani coprono con pudore il ventre; il volto, delicato e un po’ inclinato, mi ha sempre dato l’impressione di una accettazione rassegnata e dolorosa di un destino inevitabile.
La seconda, anch’essa terribile, ma anch’essa tremendamente vera, è quella intitolata “Un bambino albino”. Varrebbe la pena andarsi a leggere tutto ciò che McCullin scrive nella sua autobiografia (“Un comportamento irragionevole”, Contrasto, 2007, pagine 160-164) su quest’incontro; ve ne lascio la conclusione:
“Oltre la guerra, oltre il giornalismo, oltre la fotografia. La politica aveva la sua responsabilità in quella tragedia. Questa sofferenza insostenibile non era il risultato di uno dei disastri naturali dell’Africa. Non era all’opera la falce della natura: questo era il risultato degli sventurati impulsi umani. Se avessi potuto, avrei rimosso quel giorno dalla mia vita, ne avrei demolito anche il ricordo. Ma come per le immagini ossessionanti dei campi di sterminio nazisti, non possiamo, non abbiamo il diritto di dimenticare gli orrori che siamo capaci di compiere sugli altri esseri umani. La fotografia che ho scattato a quel piccolo albino deve rimanere impressa per sempre nella mente di chi la osserva”.
Il tuo lavoro l’hai fatto bene, Don, perché, come io non ho mai dimenticato quella fotografia, sono sicuro che non lo farà chi leggerà queste note. Quello di cui non sono sicuro è che certe immagini dovrebbero rivoltare le nostre coscienze come un calzino e indurci a comportarci sempre di conseguenza. Donald McCullin ha sempre fatto fatica a digerire l’etichetta di fotoreporter di guerra e lo capisco; al contrario non capisco la difficoltà nell’analizzare il suo lavoro e la sua opera. La fotografia è nata, con buona pace del fotoritocco, per raccontare quello che sta davanti all’obiettivo e niente altro, certo scegliendo questo o quello.
Richard Avedon o Helmut Newton, fotografi straordinari, sono sicuramente più famosi di Don McCullin e i loro ritratti, le loro fotografie di moda costano parecchio di più, tuttavia la differenza sta nel fatto che i primi raccontano come le persone vorrebbero essere, mentre il secondo ci dice come le persone sono.
Cosa peraltro oggi sempre più difficile da raccontare e da mostrare… viviamo in un mondo in cui le immagini cosiddette ‘crude’ non vengono più mostrate al grande pubblico come si faceva in passato: “In Vietnam fu suicida lasciarci liberi – disse Don in una recente intervista – perché facemmo quello che sappiamo fare meglio: mostrare la verità. E la verità non era piacevole”. E siccome non lo è, meglio mostrare altro in modo che quelli che tirano le fila possano andarsene in giro per il mondo a combinare i loro sporchi traffici, senza che nessuno ci metta dentro il naso, riempiendo i nostri schermi delle più squallide bugie e inutili scemenze.
Don McCullin fra pochi giorni compirà 86 anni; vive nel Somerset nel sud-ovest dell’Inghilterra. Angelina Jolie di recente, colpita dal coraggio e dalla umanità del fotografo, nonché dal suo impegno assoluto a testimoniare la verità della guerra, ha annunciato che dirigerà un film biografico su di lui dal titolo “Unreasonable Behaviour” (Un comportamento irragionevole, proprio come la sua autobiografia).
Ma la macchina fotografica di Don ora inquadra nature morte e paesaggi inglesi, dove un cielo cupo e scuro chiude da sopra un largo spazio senza persone.
Credo che tutto quello che ha visto, non solo quello che ha fotografato, abbiano lasciato in lui la terribile certezza che le cose, fotografate o no, non cambieranno.
Ah, dimenticavo, buon Natale.