Che fortuna essere nato povero

È stato senz’altro un incontro particolare quello con Mario Giacomelli. Non andai a trovarlo a Senigallia nella sua tipografia, ma fu quando nel 1980 acquistai alla Pilotta di Parma il catalogo a lui dedicato dal dipartimento di fotografia dell’Università di Parma, meglio noto come Centro Studi e Archivio della Comunicazione; quella straordinaria istituzione, fondata nel 1968 da Arturo Carlo Quintavalle, conserva oggi più di 12 milioni di pezzi.

Parlo di un incontro particolare perché le sue fotografie mi sembrarono totalmente originali, soprattutto rispetto a quello che era stato pubblicato o si pubblicava in quel momento sulle tante riviste, cataloghi e libri che la mia fame di apprendere mi spingeva a sfogliare e, quando avevo i soldi, ad acquistare.

Il fotografo Mario Giacomelli (Senigallia, 1925 – 2000) dunque! A chiunque mastichi un po’ di fotografia verranno immediatamente alla mente tre ricerche e un’immagine: il suo lavoro all’ospizio di Senigallia, la serie ‘Pretini’, le tante vedute di paesaggi intorno a Senigallia ed una fotografia: ‘Il bambino di Scanno’. Tanta roba, come si usa dire oggi, anche se nella produzione artistica di quest’uomo riservato e scontroso c’è tanto di più.

George Tatge, Giacomelli sulla porta della sua Tipografia,1995

Nasce a Senigallia il primo agosto del 1925 da una famiglia povera, cosa che ricorderà sempre nelle tante interviste come una fortuna: “è che a casa non c’era molto da mangiare – racconterà ad Alessandra Mauro il 30 ottobre 2000 – e io non avevo mai avuto un giocattolo.

Tutti, quando sei povero, ti guardano dall’alto in basso e mia madre ha dovuto cercare lavoro all’ospizio dei vecchi. A quel tempo non esistevano le lavatrici e lei lavava i panni per loro, mentre io l’accompagnavo. Eravamo veramente molto poveri.”
A 9 anni rimane orfano e la situazione peggiora, ma sua madre vuole farlo studiare: “Ho provato l’avviamento; il primo anno sono riuscito a farlo ma il secondo…”.

A tredici, affascinato dalle composizioni dei grandi caratteri rovesciati, che vedeva nelle vetrine della tipografia Giunchedi in città, decide che quella è la sua strada e inizia a lavorarci come garzone. Dopo la guerra partecipa alla ricostruzione come operaio tipografo e nel 1950, con i risparmi che gli presta un’anziana dell’ospizio in cui la madre lavorava, si mette in proprio e apre la “Tipografia Marchigiana” sotto i Portici Ercolani, lungo la sponda del fiume Misa. Sono gli anni in cui dipinge, scrive poesie ed inizia ad interessarsi di fotografia. Compra un’economica Bencini Comet S e la storia vuole che con essa scatti una prima memorabile fotografia che intitola ‘L’approdo’. Una scarpa trasportata dalle onde sulla battigia della spiaggia di Senigallia.

Mario Giacomelli con la sua Kobell

Inizia a partecipare ai concorsi fotografici ottenendo buoni risultati; mentre arrivano anche nella cittadina marchigiana i venti che soffiano da Milano sospinti dal Circolo fotografico ‘La Bussola’ e da Venezia da quello de ‘La Gondola’, se ne fonda uno anche in città, l’Associazione Fotografica Misa, sotto la guida di Giuseppe Cavalli. Per alcuni anni il mondo fotoamatoriale è il suo mondo, dove si discute di pittorialismo e neorealismo, di toni alti e di toni bassi.

Mario ascolta, guarda, impara da Cavalli le tecniche di stampa; si discute molto, si cresce e ci si confronta anche muro contro muro, come ancora oggi succede in quell’ambiente. Ben presto questo gli diventa stretto, il gruppo Misa si scioglie, Mario continua per un’altra strada, quella che gli sta stampata addosso anche oggi: carte dure, forti contrasti che spesso sconfinano nel solo bianco e nero, tutto pervaso di un’infinita poesia, che racconta molto di più di quello che emerge dagli acidi nelle bacinelle della sua camera oscura.

I suoi lavori narrano storie che lo impegnano spesso per degli anni (la sua ricerca dal titolo ‘Paesaggi’ inizia nel 1955 e continuerà praticamente tutta la vita), come quella raccontata all’ospizio di Senigallia. Fin da bambino ci passa giornate intere, mentre la mamma lava i panni, lui gira per le stanze e i corridoi. Davanti ai suoi occhi appare sempre con maggior forza la cruda realtà dell’invecchiamento. Quando inizia a fotografare non può fare a meno di ritornarci, per raccontare quella storia che aveva vissuto per tante giornate durante la sua fanciullezza.

Nasce il progetto ‘Vita d’ospizio’ iniziato nel 1955 e terminato nel 1968, più tardi Giacomelli cambierà il titolo in ‘Verrà la morte e avrà i tuoi occhi’ da una raccolta di poesie di Cesare Pavese pubblicate postume: “Di tutte le cose che ho fatto penso che questa sia la ricerca più interessante; ho provato infatti più emozioni stando a contatto di questo ambiente che in tutte le altre ricerche messe insieme”. Perché? – gli chiede Quintavalle – “Il perché? Dopo avere lottato tutta la vita, perché la fine di una vita deve essere questa, perché deve finire in questi ambienti, in queste istituzioni sballate? … Questi posti non dovrebbero esistere, vanno concepiti in un’altra maniera, dovrebbero essere inseriti in mezzo agli altri, dovrebbero far sentire agli anziani che sono ancora utili e non messi in questa specie di dimenticatoio”.

Giacomelli usa il flash in tutte queste immagini, vuole che la realtà che gli sta di fronte sia quanto più dura possibile, le stampa su carta contrastata che ne accentua ancora di più la crudezza. Verrà accusato più volte di violare l’intimità e la privacy di quelle persone, ma lui vuole solo denunciare una situazione reale e raccontare la verità, cosa che può far male come ho detto più volte, ma che rende liberi.

La fotografia tecnicamente è un mezzo straordinario per farlo; nella sua storia gli esempi di verità mostrata attraverso le immagini – pensiamo a Jacob Riis, a Lewis Hine, a Jack London con ‘Il popolo dell’abisso’ e a Eugene Smith con la faccenda di Minamata per citarne alcuni – sono tanti e tante sono le situazioni che grazie al lavoro di molti fotografi sono cambiate; da allora anche quella degli anziani nelle case di riposo.

Mario Giacomelli, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1955-1957

La serie dedicata al seminario di Senigallia è un’altra storia. Giacomelli chiede il permesso al rettore nel 1962, ci va spesso, ci passa le domeniche e quando il lavoro in tipografia glielo permette, la serie all’inizio non lo accontenta… ma la svolta arriva una mattina d’inverno durante una nevicata. I seminaristi si divertono nel cortile a rincorrersi e a giocare con il girotondo. Lui sale in solaio e scatta dall’alto quella serie di immagini indimenticabili, che più tardi chiamerà ‘Io non ho mani che mi accarezzino il volto’ prendendo le parole da una poesia di padre David Maria Turoldo.

Mario Giacomelli, Io non ho mani che mi accarezzino il volto, 1961-1963
Mario Giacomelli, Pesaggio

Il suo lavoro sul paesaggio durò, come dicevamo più sopra, tutta la vita. Anche qui scatta dall’alto, spesso dall’aereo di un suo amico che lo porta su. Toglie praticamente sempre il cielo, caratteristica immancabile per ogni paesaggista che si rispetti, ma lui vuole sottolineare la violenza dell’uomo nei confronti della terra, che infatti appare, nei violenti contrasti, come profanata per farle produrre di più: “In questa serie di foto – racconterà a Quintavalle – possiamo vedere che quella vita che la terra aveva un tempo le viene tolta dall’uomo e la terra come l’uomo finisce all’ospizio’. Questo parecchi decenni prima del grido d’allarme lanciato da papa Francesco con la Laudato si’.

Mario Giacomelli, Il bambino di Scanno, 1957

Ci sarebbe ancora tanto da scrivere su Giacomelli, ma in questa sede non mi è permesso; chiudo perciò con l’invitarvi a fermare un momento il vostro sguardo su ‘Il bambino di Scanno’. Sono sicuro che non la dimenticherete, perché in fondo, come amava dire Giacomelli, è un po’ la metafora della vita, c’è chi si avvia vestito di nero verso la fine e chi invece, in un alone di luce, alla vita ci va incontro.

Una risposta su “Che fortuna essere nato povero”

Personaggio affascinante. Non lo conoscevo. Grazie Peppo, amico mio di una vita

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