Il granaio

Continua la descrizione dei vari ambienti della vecchia casa colonica reggiana, curata dal nostro collaboratore Giuliano Lusetti.

La prima puntata, sulla cucina, è stata pubblicata nell’edizione de La Libertà del 3 febbraio scorso; la seconda, sulla cantina, nell’edizione del 17 marzo; la terza, sulla camera da letto, nell’edizione del 28 aprile.

Era lo scrigno della casa, l’ambiente dove si custodiva la materia prima per fare il pane. Si trattava di uno “stanzone” di notevole ampiezza, molto arieggiato con finestrature preferibilmente verso sud, che veniva ricavato spesso sopra alla “porta morta” (portico centrale della casa colonica che divide la zona residenziale dal rustico).

In questo caso il livello del pavimento, normalmente in mattoni o tavelle, era più alto di un metro circa rispetto al restante primo piano della casa, dovuto alla maggiore altezza della stessa “porta morta” nei confronti dei locali abitativi del piano terra.

Servivano pertanto ulteriori gradini per raggiungere il piano rialzato di quel locale, la cui altezza poteva superare nella media i quattro metri; in quel caso il soffitto, costituito dalla struttura in legno della copertura e dai coppi stessi, veniva completato con tavelle laterizie alleggerite, per ragioni di carattere igienico.

Sempre per le stesse ragioni si provvedeva a tinteggiare le pareti con calce spenta, che contribuiva a tener lontani insetti e parassiti.
Alcuni giorni prima del suo utilizzo il granaio veniva messo in ordine ed accuratamente ripulito.

Mentre nel caso di poderi in proprietà o in affitto tutta la produzione di grano era riposta nel granaio, per quelli condotti a mezzadria soltanto la parte spettante al mezzadro veniva trattenuta presso la casa colonica, mentre il proprietario del podere si portava via quella di sua spettanza nello stesso giorno della trebbiatura.

Nelle case di più vecchia costruzione, quando si riteneva che il carico sul solaio del granaio fosse eccessivo (si poteva arrivare a 50-60 quintali e anche oltre), allora si provvedeva alla puntellatura delle travi sottostanti. Quando il nucleo familiare diventava più numeroso del previsto non di rado il granaio si trasformava anche in camera da letto per i giovanotti che non avevano problemi di arredo per la loro camera o quant’altro.

Il giorno della trebbiatura tutta la casa entrava in fermento a causa dell’andirivieni su e giù per le scale di coloro che trasportavano i sacchi di grano dall’aia al granaio che, per i poderi più grandi, si protraeva per un’intera giornata.

Si trattava di uomini giovani o di media età e di corporatura robusta in quanto si trattava di trasportare in spalla sacchi da cinquanta kg di grano salendo due rampe e più per un totale di 20-25 gradini e per diverse ore.

Normalmente erano componenti della famiglia, ma per l’occasione si prestavano anche i vicini di casa per ricambiare favori già ricevuti in precedenza.
Il grano accumulato in granaio vi restava fino a metà autunno quando, terminata l’essiccazione, veniva acquistato dai mugnai o venduto a gestori di magazzini di cereali, trattenendo il solo necessario per il sostenimento della famiglia.

In quel periodo di tempo quella montagna di grano diventava motivo di divertimento per i bambini che vi si tuffavano come fosse il loro mare, prendendosi gli immancabili rimproveri da parte degli adulti.

Il profumo particolare di quel grande cumulo dorato restava nel granaio per tutto l’anno e faceva ricordare l’ondeggiante campo di grano e la fragranza del pane appena sfornato. Il fabbisogno destinato all’uso della famiglia veniva riposto nei sacchi di iuta e utilizzato durante il corso dell’inverno e della primavera successiva.
Per tutto quel periodo il granaio ristava luogo silenzioso, da rispettare, quasi avvolto da un’aria di mistero.

Giuliano Lusetti

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