Manuel Alvarez Bravo da studente a professore

Una profonda e delicata poesia, una sottile e disperata ironia emanano dalle sue fotografie, come quelle particelle che, sospese nell’aria, rendono visibile il raggio di luce che penetra in una stanza immersa nelle tenebre.” Così si espresse sul lavoro di Alvarez Bravo, alla fine degli anni Venti, Diego Rivera, pittore e principale esponente del muralismo messicano; movimento che ha poco a vedere con il graffitismo di oggi per la cronaca, almeno perché quelli ricevevano una comanda per dipingere, mentre questi quasi sempre, per non dire quasi mai, no.

Manuel Alvarez Bravo nasce a Città del Messico nel 1902 e lì muore a 100 anni compiuti nel 2002; cresce in un paese dove iniziava a soffiare un vento dal lontano est che cercava di portare aria nuova in un mondo di contadini sfruttati. Cresce mentre nomi come Pancho Villa ed Emiliano Zapata sono sulla bocca di tutti e la dicono lunga sull’atmosfera del momento.
Tuttavia l’incertezza e le grandi difficoltà non hanno mai impedito, anzi hanno semmai sempre stimolato, il lavoro di tanti artisti. Con la luce del Messico, tagliato a metà del Tropico del Cancro, ci sono poi sempre andati a nozze i fotografi, a cominciare da un pezzo da novanta del calibro di Edward Weston, che lavorò in Messico dal 1923 al 1926, e della sua allieva/amante Tina Modotti, che dovette poi fare i conti con la grigia luce che trovò nel suo esilio europeo, non riuscendo più a produrre immagini interessanti. Fu proprio lei che presentò Alvarez Bravo a Diego Rivera e a sua moglie, Frida Kahlo, portando all’attenzione del mondo artistico messicano la validità del suo lavoro.

Frida Kahlo, 1930

La macchina fotografica ce l’ha in mano fin da giovanissimo, ancora indeciso fra pittura e pellicole, se disegnare con il pennello o con la luce. Quello che lo fa scegliere è il fascino del buio della camera oscura di Hugo Brehme, fotografo tedesco con uno studio a Città del Messico, e la magia della carta bianca che si trasforma in fotografia nella vaschetta degli acidi, tutto il resto lo impara da solo. Spedisce le sue fotografie, spinto da Tina Modotti, a Edward Weston che lo incoraggia. Viaggia nel 1933 con Paul Strand mentre lavora in Messico su diversi progetti, tutti raccolti finalmente nel 2010 nello splendido volume ‘Paul Stand in Mexico’. L’anno dopo incontra Henri Cartier-Bresson, chiamato a fotografare la costruzione di una strada nazionale Panamericana, insieme espongono le loro opere al Palacio de Bellas Artes di Città del Messico.

Dal 17 gennaio al 18 marzo del 1956 espone nella mostra ‘Diogenes with a Camera III’ al MoMA di New York a fianco di di August Sander, Paul Strand e Walker Evans. Ha tentato anche la strada del cinema, forse spinto dall’amore di Strand per la macchina da presa e per alcuni anni è salito in cattedra passando da allievo ad insegnante.

‘Diogenes with a Camera III’, MoMA, 1956

Potrei andare avanti, ma possiamo fermarci un momento ad analizzare il suo lavoro. Non mi è mai andato a genio usare il frasario dei critici: spesso leggendoli faccio fatica a seguirli e, perché no, a volte anche a capirli, cosa che mi trova sovente in accordo anche con gli stessi autori analizzati.
Le sue fotografie non si distinguono per uno stile particolare, spaziano dal paesaggio al nudo, dal fotogiornalismo al lirismo puro o anche a riprendere una semplice scena di vita – la street photography o anche la precedente straight photography (meno male che ci ho messo un po’ di inglese perché sennò per qualcuno non sei nessuno).

Immagini a cui certuni, quelli di cui parlavo più sopra, hanno cercato di attaccarci un’etichetta vicina al surrealismo, quel figlio del dadaismo a quel tempo imperante in ogni campo artistico, soprattutto se l’artista poi piegava verso sinistra. Quell’etichetta a lui, schivo com’era, non è mai andata bene ed ha sempre cercato di staccarsela. Per il resto lascio a voi il giudizio quando vi prenderete un po’ di tempo per andare a vedere la sue fotografie.
Le fotografie che unisco a questo articolo possono solo darvi un accenno del suo lavoro.

Bicicletas en Domingo, 1966-1968
Vendedora de zacate, Oaxaca, 1974
Madonna, 1981

Termino col dirvi quello che ha Alvarez Bravo lasciato a me. Nel guardare le sue immagini riesco solo ad pensare a una persona che gioisce nello scattarle, più che nel vederle attaccate ad una parete in una mostra. Un artista che se lo avessi incontrato, sono certo, mi avrebbe detto quello che mi disse una sera il grande vecchio della fotografia reggiana Stanislao Farri: “Le mie immagini devono piacere soprattutto a me, il parere degli altri non mi è mai interessato più di tanto”. Del resto Manuel Alvarez Bravo è sempre stato una persona umile e concisa, proprio come tante sue fotografie.

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