Riportiamo il testo integrale dell’omelia preparate e non pronunciata da monsignor Camisasca in Cattedrale a Reggio Emilia per la Messa in Coena Domini di giovedì 1 aprile 2021
Cari fratelli e sorelle,
con questa celebrazione ci introduciamo nel solenne Triduo Pasquale verso cui tutto l’anno liturgico converge. In questi giorni siamo chiamati a guardare ai misteri fondativi della nostra fede, agli eventi dai quali tutte le altre celebrazioni traggono il loro significato e la loro luce.
Il Triduo Pasquale, anche se si distende su tre giorni, rappresenta in realtà un unico atto liturgico. In questo modo la Chiesa ci educa a non separare mai la considerazione della passione e morte del Signore dalla sua resurrezione. Vi è una profonda sapienza in tutto ciò: senza la luce nuova del mattino di Pasqua, infatti, non saremmo in grado di guardare alla croce. Rimarremmo schiacciati dal dolore, dalla paura e dalla disperazione. Allo stesso modo, la gioia della risurrezione resterebbe solo un sentimento superficiale e astratto senza la considerazione di tutto ciò che la precede.
È un grande insegnamento per la nostra vita: la sofferenza e il buio si possono attraversare senza soccombere solo guardando ad un punto di luce. La luce, da parte sua, manifesta in modo pieno tutta la sua potenza e fecondità proprio a coloro il cui cuore è stato forgiato nella notte. Non a caso più volte in questa liturgia compare la parola “notte”: nella notte in cui veniva tradito (1Cor 11,23), abbiamo ascoltato da san Paolo nella seconda lettura. Ma anche il libro dell’Esodo, da cui è tratta la prima lettura, ci parla due volte della notte, riferendosi al grande evento della Pasqua del popolo di Israele (cfr. Es 12,1-8.11-14). In entrambi i casi il buio della notte è l’alveo in cui la luce della potenza e della gloria di Dio inizia a manifestarsi.
L’unità del Triduo ci riporta anche all’unità della vita di Gesù: non vi è nessuna interruzione tra l’ultima cena del Signore, la sua passione, la sua morte in croce e la sua resurrezione. Nel linguaggio evangelico questi tre giorni sono descritti come un’ora sola, la sua “ora”. I vangeli ci testimoniano che ogni azione di Gesù, ogni sua parola, ogni suo gesto, ogni suo pensiero erano orientati alla venuta di quest’ora.
È a questo momento che Gesù si riferisce all’inizio del suo ministero, quando, rispondendo alla madre che gli faceva presente la mancanza di vino alle nozze di Cana, rispondeva: Non è ancora giunta la mia ora (Gv 2,4). In realtà, di fronte all’intercessione di Maria, Gesù anticipa la sua manifestazione, cosicché ogni passo del suo ministero rappresenta una caparra e un riflesso di quanto ora accade in modo compiuto e definitivo.
Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine (Gv 13,1). Gesù è venuto perché, come dice lui stesso, noi potessimo avere la vita e averla in abbondanza (cfr. Gv 10,10). Questa vita e questa abbondanza si condensano davanti ai nostri occhi nella celebrazione di questa Messa vespertina. Le parole, i gesti e le immagini che formano questa liturgia costituiscono un anticipo misterioso e reale di tutto ciò che vivremo nei prossimi giorni.
La donazione totale di Gesù al Padre e agli uomini, il suo sacrificio sulla croce, il suo nascondimento nella terra e la sua resurrezione sono sacramentalmente rappresentati, anticipati ed perennemente prolungati dall’istituzione dell’Eucarestia e del sacerdozio ministeriale che oggi celebriamo.
Cristo, nelle ore immediatamente precedenti la sua Passione, ha desiderato introdurre i suoi – e con loro tutte le generazioni che sarebbero venute – nella vita che la sua donazione avrebbe spalancato. Li amò sino alla fine… Lo ha fatto rendendo la sua presenza e la sua donazione un evento perenne, contemporaneo ad ogni epoca. Aprendo una possibilità infinita di entrare in quegli eventi, centro del cosmo e della storia, ma anche portale della vita che non finisce.
La lavanda dei piedi, al di là di tutte le riduzioni sociologiche che di essa si fanno, è l’immagine che Gesù ha scelto per comunicare il significato di tutto ciò. Prima ancora che un insegnamento morale e un esempio, essa rappresenta uno svelamento dell’Eucarestia, una catechesi che ci aiuta a riconoscere il mistero nascosto nella celebrazione eucaristica: l’abbassamento di Dio, il suo inginocchiarsi davanti all’uomo, il suo consegnarsi nelle sue mani. Questo “svuotarsi” di Dio, questo assumere la forma del servo (cfr. Fil 2,7), è anche la strada della purificazione dell’uomo, del perdono, della liberazione dal male. In questo gesto di Gesù diviene evidente che la possibilità dell’uomo di andare a Dio è sempre preceduta e permessa da un cammino più profondo e più paziente che Dio per primo percorre verso l’uomo. La lavanda dei piedi – condensando in sé la luce dei sacramenti della Riconciliazione e dell’Eucarestia – rappresenta l’incrocio di queste due strade, dell’uomo verso Dio e di Dio verso l’uomo, due strade nelle quali l’una è suscitata dall’altra.
Alla scuola di Cristo che lava i piedi ai suoi discepoli, siamo così introdotti nel movimento dell’amore divino e impariamo a prenderci cura gli uni degli altri, a servire la verità e il bene dell’altro, ma anche a riconoscere il nostro bisogno di essere continuamente perdonati e purificati. Soprattutto impariamo a lasciarci amare e accompagnare. «Il Signore toglie la nostra sporcizia con la forza purificatrice della sua bontà. Lavarci i piedi gli uni gli altri significa soprattutto perdonarci instancabilmente gli uni gli altri, […] Significa purificarci gli uni gli altri, sopportandoci a vicenda e accettando di essere sopportati dagli altri» (Benedetto XVI, Omelia nella Messa “in coena Domini”, 13 aprile 2006).
Il Signore ci conceda questa grazia per noi, per le nostre famiglie e per tutte le nostre comunità.
Amen.
+ Massimo Camisasca