Quando la vita diventa un «gioco»: dalla Bosnia il dramma dei profughi

Sono più di ottomila persone, giunte in Bosnia Erzegovina. Sono siriani, afgani, pakistani, iracheni e iraniani, in fuga dall’orrore di guerre, persecuzioni, carestie e povertà del loro Paesi.
Si sente parlare poco di questo dramma, forse perché essi non rappresentano una “minaccia” per l’Italia come gli sbarchi a Lampedusa, o perché non ha pari ridondanza mediatica.

Si tratta di rifugiati in cerca di una nuova vita, con il miraggio dell’Europa come luogo e terra dove ricominciare tutto.
Giungono da lontano, ma dopo mesi e mesi di cammino e sofferenza, nel tratto ultimo il loro percorso si divide in due corridoi: Grecia, Macedonia, Serbia e Bosnia il primo; Grecia, Albania, Montenegro e Bosnia il secondo.
Ma una volta giunti in Bosnia, nel campo profughi di Lipa e di Bira (campo solo per uomini), rimangono bloccati.
Lo stesso campo profughi di Bira è quello saltato alle cronache qualche mese fa per l’incendio scoppiato lo scorso 23 dicembre, durante le operazioni di sgombero, e successivamente chiuso.

La vita in questi campi è disumana: la gente vi vive per mesi senza acqua, elettricità, dormendo coperta da stracci e senza il benché minimo servizio (niente docce e WC). Attualmente, dopo lo sgombero, si sono stanziati nei campi di Mostar, Miral e Sarajevo.
A far partire le persone è la disperazione per quanto succede nella loro patria: diritti calpestati, persecuzioni etniche o religiose, guerra, o per l’estrema povertà. Ed è incredibile che proprio loro (questa volta non si tratta di termini coniati da altri su misura) usino la parola “game”, ossia gioco, per definire questa triste e penosa situazione.

I migranti tentano il “game”, termine che loro stessi utilizzano, per tentare il passaggio dalla Bosnia Erzegovina alla Croazia. Un lungo viaggio folle e disperato che alla fine diventa paradossalmente un “game”.
Ma c’è la polizia croata ad attenderli, a catturarli, a torturarli e a rispedirli indietro. E allora ecco ritentare un altro “game”. Tra le migliaia di persone c’è chi lo ha già ripetuto più di 20 volte.
“Vado in game” è talvolta l’ultimo saluto dei più giovani che provano ad oltrepassare la frontiera che, nei loro sogni, li porterà a rinascere a nuova vita in Europa.

Muslim è di origine pakistana. Ci ha provato otto volte, racconta, ma la polizia croata lo ha sempre intercettato, picchiato come una bestia, trattenuto e derubato.
Gli hanno sottratto perfino le scarpe, così gli si sono congelati i piedi tornando indietro al campo profughi.
Ma promette di riprovarci ancora.
Eqbal invece il “game” lo ha già provato 19 volte: ha 31 anni ed è madre di cinque figli. Con il marito sono scappati da Baghdad.
A Mohamed la polizia ha dato fuoco e non ha più le dita delle mani; è ritornato nel campo profughi su una sedia a rotelle, fornita dai pochi volontari che cercano di portare un po’ di umanità in tutta questa desolazione.

E a questo orrore umanitario si aggiunge anche quello della pandemia da Covid-19. Il flusso di migranti non accenna a diminuire, ma rischia anzi di aumentare sotto le minacce della Turchia di far passare verso l’Europa ogni profugo presente nel proprio territorio.
Diventerebbero così decine e decine di migliaia a spingere sul confine fra Bosnia e Croazia, per raggiungere l’Unione Europea.
Si moltiplicherebbero anche i crimini che si stanno perpetrando verso queste persone che fuggono già da altre atrocità, e non c’è modo di denunciare quanto accade per ottenere giustizia.

Mario Colletti

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