John Dewey e il coronavirus

Nella lettera che Julián Carrón ha scritto al Corriere della Sera il primo marzo scorso ad un certo punto l’autore pone una domanda fondamentale a riguardo della situazione provocata dal coronavirus: che cosa può vincere realmente la nostra paura? E risponde: solo una presenza e una certa presenza umana. Per capire meglio la portata di tale risposta percorreremo un tratto di strada in compagnia di un autore che, a parere di tanti, rappresenta uno degli intellettuali che più hanno contribuito a formare la mentalità dominante del nostro tempo, specialmente in Occidente e soprattutto negli Stati Uniti: John Dewey (1859-1952).

Dewey è mosso nella sua ricerca dall’esigenza di trovare soluzioni adeguate alla condizione umana caratterizzata costantemente da precarietà, insicurezza, rischio: il mondo non è un habitat facile per l’uomo, ma un luogo che lo sfida, lo ferisce e gli crea problemi e domande a cui occorre rispondere. Si sente, in questa visione della vita umana, un’eco comune a tanto pensiero del Novecento, specialmente dopo la prima guerra mondiale, in cui si sottolinea la “gettatezza” (Heidegger) dell’individuo nell’esistenza o, in generale, una condizione esistenziale terribilmente drammatica, propria di un uomo che sa di vivere non “nel migliore dei mondi possibili” (Leibniz), ma in un ambiente non pensato da nessuno a misura d’uomo, in cui la lotta per la sopravvivenza sembra l’unica legge reale, insieme alla necessità di aggregarsi e fare contratti per rispondere meglio alle necessità vitali.

Da sempre l’uomo si è trovato in tale condizione e in tanti modi ha cercato soluzioni per risolvere i problemi, prevenire i rischi, dominare le circostanze e, soprattutto, vincere la paura e l’angoscia che attanagliano mente e cuore. Secondo Dewey le proposte di soluzione del passato, dall’antichità fino alla maturità della rivoluzione scientifica, hanno avuto in comune quello che si può definire come un carattere illusorio e auto consolatorio. Religioni e filosofie hanno inventato significati, ordini, strutture ideali del mondo che non esistono, ma che hanno avuto la funzione di illuminare il buio, chiarire l’enigmaticità del reale, portare ordine là dove sembrava esserci solo caos irrazionale, fornire all’uomo una chiave di lettura degli eventi naturali e umani tale da suscitare nell’animo se non pace, almeno saggezza rassegnata. Possedendo il senso della realtà, la conoscenza dei suoi “misteri” ultimi l’animo umano poteva trovare forza e certezza nella contemplazione di un certo stato di cose.
L’illusorietà di tali soluzioni è evidente, dal momento che coincide con una passività che non è capace di affrontare veramente i problemi e le sfide.

Leggi il testo integrale del saggio di Daniele Semprini su La Libertà del 15 aprile 2020 

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