Il distanziamento sociale e l’isolamento si stanno dimostrando misure efficaci per contenere i contagi da coronavirus. Ci rendiamo conto tutti però di quale sia il rovescio della medaglia. Non possiamo più salutarci con strette di mano o con pacche sulle spalle, in diverse situazioni non ci è nemmeno consentito di abbracciare le nostre persone care e stringerci fisicamente a loro.
Anche in ospedale per chi come me era abituato a stringere la mano ad ogni paziente anche più volte al giorno e a mettere il naso nella camera di degenza per salutare è cambiato tutto. Ora entriamo con mascherina, cuffie, camicioni, guanti, come dei marziani. Spuntano soltanto gli occhi e poco più.
Il riconoscimento, se avviene, è quasi esclusivamente tramite il tono od il timbro della voce o, ancora più spesso, perché in qualche maniera ci si qualifica. Alla fatica della malattia specialmente per chi ne è colpito e per chi in ospedale è completamente privato, se non per qualche videochiamata, della presenza e del conforto dei suoi cari, si aggiunge la fatica della lontananza, della solitudine.
Leggi tutto l’articolo di Giuseppe Chesi, AMCI Reggio Emilia, su La Libertà del 15 aprile 2020