Felicità collettiva al primo posto

Mi sono chiesta spesso cosa si intenda per felicità: una emozione temporanea e fugace, ad esempio per il raggiungimento di un obiettivo, la consapevolezza di un affetto ricambiato, l’aver compiuto un’azione utile a se stessi o agli altri. Ognuno è felice per ragioni che variano da individuo a individuo. Non esiste la condizione di felicità assoluta. Le nostre scelte sono la chiave della nostra stessa felicità.
Il concetto di felicità rimanda a uno stato personale, individuale, dove il pronome io è al vertice del pensiero, dimenticando che spesso questa condizione celestiale non si verificherebbe senza il contributo o la partecipazione di altri.
Il concetto di felicità individuale e collettiva è stato analizzato approfonditamente nel corso dei secoli.
Il filosofo di Samo Epicuro, nel II secolo avanti Cristo, nella sua “Lettera sulla felicità” rivolta a Meneceo, personaggio della mitologia greca, identificava una delle chiavi della felicità nell’autosufficienza (autarkeia), “il sapersi accontentare di poco, così da essere liberi dal bisogno, e quindi dal dolore”.

Aristotele, uno dei padri del pensiero filosofico greco, fa riferimento al termine eudamonia che, composta dal suffisso eu (bene) e daimon (demone), letteralmente significa “essere in compagnia di un buon demone”. Secondo il filosofo, l’eudaimonia può essere conseguita solo nella vita di relazione all’interno di una società e come esseri sociali dobbiamo trovare la felicità interagendo in modo positivo con coloro che ci circondano.

Continua a leggere tutto l’articolo di Valeria Braglia nella rubrica Mirabilia su La Libertà del 4 marzo

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