Per iniziativa delle parrocchie di Montecchio e Felina è appena uscita la seconda edizione del libro “Iemmi quasi utopista” di Giuseppe Giovanelli, condirettore del Centro Diocesano Studi Storici “Monsignor Francesco Milani” e già apprezzato relatore al recente convegno ecclesiale “Vexilla Regis prodeunt” in memoria del clero reggiano-guastallese martire nel periodo 1943-1946.
Si parla di uno dei nostri sacerdoti dalla testimonianza più luminosa, come chiarisce il sottotitolo del volume: “Cronache della vita e della morte di don Giuseppe Iemmi, il «cappellanino» di Felina”.
Rispetto alla prima edizione del 1995, quella stampata in novembre presso La Nuova Tipolito (200 pagine, 12 euro) esce arricchita di nuovi elementi biografici, di un inserto fotografico reso possibile grazie al materiale fornito da Paolo Pederzoli, pronipote di don Iemmi, e della prefazione del nostro Vescovo.
Giuseppe Iemmi vede la luce a Montecchio il 28 dicembre 1919, studia a Marola e ad Albinea. “La sua breve esperienza sacerdotale – scrive monsignor Massimo Camisasca – ci racconta l’efficacia e la radicalità di quell’intenso programma di formazione alla santità che ha caratterizzato i seminari diocesani fra le due guerre mondiali”.
Dopo l’ordinazione presbiterale, ricevuta il 27 giugno 1943, don Giuseppe viene inviato a Felina come cappellano coadiutore del prevosto don Anastasio Corsi. Qui, dopo circa venti mesi di apostolato parrocchiale, il 19 aprile 1945 viene prelevato e ucciso da partigiani comunisti sul monte Fòsola, nel territorio della parrocchia di Pontone.
Nella biografia scritta da Giovanelli con stile chiaro e coinvolgente, trova puntuale descrizione tutta l’avventura umana di questo testimone della fede: un ragazzo sereno, generoso, dotato di evidente spirito di sacrificio e pronto a donare tutto se stesso per ogni causa di bene. Avrebbe voluto partire alla volta della Cina, don Iemmi, magari nelle missioni saveriane ad gentes, ma questo progetto rischiava di far impazzire la mamma Angiolina, vedova, che temeva che il figlio potesse essere ucciso dai rivoluzionari comunisti e che quando lo aveva visto partire per il noviziato saveriano non era riuscita a sopportare il distacco. Il vescovo aveva deciso di riammettere “Pépo” (come veniva semplicemente chiamato il giovane prete) nel seminario di Reggio, in attesa di tempi migliori.
A Felina don Giuseppe non bada alle fatiche: segue i giovani, li aiuta negli studi, organizza la catechesi, prende su di sé tutto ciò che nella cura della parrocchia richiede di recarsi nelle borgate, a contatto con la gente. Gira ai poveri tutte le offerte che riceve dai benestanti.
Collabora intensamente con la resistenza antifascista e antinazista, in spirito di carità e non di partito. S’impegna nel salvare vite umane e nella liberazione dei prigionieri.
Nell’estate 1944 il Comando delle brigate partigiane lo incarica di trattare con i tedeschi lo scambio dei prigionieri… Ma quando partigiani comunisti uccidono due suoi innocenti parrocchiani, padri di famiglia, egli, nella predica della Pasqua 1945, ne denuncia l’assassinio. Sa che cosa e quanto rischia. Ma ritiene che sia suo compito di sacerdote annunciare il comandamento di Dio “Non uccidere”.
Poco dopo, con un inganno, viene prelevato da due partigiani della pianura, sottoposto a torture fisiche e psicologiche e, condotto sul monte Fòsola, ucciso con una raffica di mitra.
La mamma, che sta venendo a trovarlo, ode quella raffica e trema per il figlio. Davanti al suo cadavere insanguinato, straziata dal dolore, trova però un’impensata pace interiore. Il primo “miracolo” del suo don “Pépo”, del quale i compagni di seminario e di ordinazione – specialmente don Giovanni Cipolli e don Gildo Beggi – cominceranno a pensare di chiedere l’apertura del processo di beatificazione.
Un libro da leggere e, viene da dire, da contemplare.
Scrive ancora il vescovo Massimo: “Viene spontaneo e naturale il parallelo tra ciò che don Iemmi fu – prete dall’intensa vocazione missionaria, animatore dei giovani, amante della musica liturgica e della bella musica in generale – e ciò che il beato Rolando Rivi desiderava diventare”.
Edoardo Tincani