La reggiana suor Anna Razzoli pioniera delle missioni amazzoniche

È stato detto che la storia delle missioni reggiani ad gentes è un po’ maschilista. Forse non del tutto a torto, perché, in effetti, la diocesi ha dato più risalto alle figure dei suoi missionari che non a quelle delle sue missionarie. Forse anche perché con i primi la diocesi ha avuto maggiori contatti (si pensi alle visite periodiche nei seminari), mentre pochi ne ha avuti con le missionarie. Eppure, la gioventù femminile reggiana dei primi del Novecento, anche attraverso le nascenti Pie Unioni delle Figlie di Maria, era permeata di una forte spiritualità missionaria che ha indirizzato numerose vocazioni agli Istituti Missionari. Ma troppo spesso la loro memoria è rimasta chiusa negli Istituti di appartenenza o nella cerchia dei parenti, come mostra il caso di suor Maria Razzoli.

La sua storia inizia a Razzolo, in quella parrocchia di Minozzo che a metà de secolo xx avrà fama di essere tra le parrocchie più missionarie della diocesi di Reggio Emilia. Qui nasce il 16 dicembre 1896, seconda degli otto figli di Giovanni Battista e di Maria Favali, in una famiglia contadina che trae di che vivere dal lavoro quotidiano svolto con assiduità, competenza e con un notevole spirito di sacrificio assorbito dai figli con naturalezza e piena comprensione. Una famiglia, anche, che pone al suo centro la preghiera e la più attenta pratica della vita cristiana e che ogni sera si trova unita nella grande cucina-soggiorno, inginocchiata dinnanzi ad una immagine della Beata Vergine per la recita del Rosario.

Pochi, ma ben focalizzati i ricordi della sua infanzia. Innanzitutto una grave malattia, di quelle che mettono in serio pericolo la vita di una bimba, e la guarigione che i genitori giudicano ottenuta per grazia della Madonna. Poi una giovinezza forte e rigogliosa tanto materialmente che spiritualmente.

La prima nota che viene ricordata dai biografi è la sua devozione mariana. Un giorno che il papà, solo con lei nei campi, le racconta la leggenda del piccolo “re di macchia” – il più piccolo degli uccellini che supera tutti in altezza di volo, aggrappandosi alla schiena di quell’aquila stessa con cui gareggia –, Anna pensa che solo aggrappandosi alla Madonna potrà fare grandi cose, anche superiori alle sue umane capacità. Un proposito premonitore che Anna stessa deve aver raccontato a qualche consorella, senza pensare che sarebbe finito nel Facciamo memoria, la raccolta dei brevi profili biografici delle suore salesiane defunte.

Di sicuro nel progettare e spiccare il suo grande volo va collocato l’interesse del papà per le missioni e i missionari, come attesta la presenza del suo nome nella lista dei più generosi offerenti del 1913 per la missione cinese di padre Pietro Uccelli1. (1. La Voce, organo cattolico della Montagna reggiana, 4 luglio 1913).

 

Frequentazioni castelnovesi

Negli anni giovanili ci devono essere anche frequentazioni in quel di Castelnovo ne’ Monti, dove si trovano diversi parenti della mamma proveniente dalla frazione di Vologno. Forse vi frequenta le elementari superiori perché solo a Castelnovo ne’ Monti vi era la quinta elementare il cui titolo è ricordato nella sua “carriera” di studio. Scuole che, aldilà delle votazioni difficilmente reperibili, Anna frequenta con molto profitto, vista la sua calligrafia ordinata e il suo corretto uso della lingua italiana, non facile in luoghi e tempi dove il dialetto regna sovrano. Forse vi soggiorna per qualche ragione di lavoro.

A Castelnovo viene a contatto con le Figlie di Maria Ausiliatrice, le suore di don Bosco, giunte a in paese il 13 agosto 1913, chiamate da don Alfonso Ferretti per assumere la gestione dell’asilo d’infanzia, dell’Oratorio festivo e della scuola per lavoro delle ragazze2.

 Nell’immediato dopoguerra, presso di loro c’era il centro organizzativo delle giovani di Azione Cattolica, fra le quali la signorina Emilia Pallai, sotto la guida di don Ferretti: «Partivano le nostre propagandiste generalmente nelle primissime ore del mattino da Castelnovo Monti per recarsi nell’alta montagna, quando ancora la chiesa era chiusa. E il M.R. don Ferretti muoveva di notte da Cagnola per giungere all’alba all’oratorio delle Suore Salesiane e dare la santa Comunione alle partenti»3.

Se le cose hanno una logica, se ne deduce che Anna abbia avuto qualche contatto con questa associazione e che abbia comunque conosciuto la Pallai alla quale scriverà i resoconti dei suoi primi anni di vita missionaria.

Aldilà delle ipotesi, il fatto certo è che a Castelnovo Monti Anna frequenta le suore salesiane, che evidentemente si pone in seria riflessione vocazionale e, alla fine, decide di farsi missionaria tra le Figlie di Maria Ausiliatrice. È lo stesso papà ad accompagnarla alla casa delle salesiane di Castelnovo Monti e ad affidarla superiora.

Che sia una scelta seria e pensata, basata su una spiritualità matura (del resto, ormai, ha ventotto anni) lo dice il fatto che la sua conclusione sia radicata nell’inno Jesu corona virginum, cantato in tutta consapevolezza l’8 dicembre 1924: anche lei si sarebbe collocata tra le loro schiere, senza più voltarsi indietro.

 

Il noviziato tra due mondi

La nuova vita inizia come postulante nella casa ispettoriale di Padova. Poi intraprende il biennio del noviziato a Conegliano, dimostrando subito di avere “buona stoffa” e buona volontà di lasciarsi “lavorare”. Si stanno aprendo nuove missioni nell’America Latina. Il profilo di Anna è quello di una ragazza dal grande vigore materiale e spirituale. In un colloquio a tu per tu la Superiora Generale Madre Maria Marchetti (1924-1943) le chiede se vuole andare missionaria. Anna sente tutto il peso del distacco, ha una più che umana paura, vorrebbe finire il noviziato a Conegliano dove si trova bene, ma dice di sì, perché «avevo promesso al Signore, se fossi riuscita a farmi suora, che mi sarebbe piaciuto andare missionaria».

Viene inviata in Ecuador dove dovrà finire il secondo anno di noviziato. Lascia Conegliano il 20 agosto 1926 per una breve sosta in famiglia e un altro breve soggiorno preparatorio nel noviziato di Nizza Monferrato. Poi a Torino, nella grande Basilica di Maria Ausiliatrice, il 10 ottobre la grande cerimonia del saluto, o del “mandato” ai settanta missionari e missionarie in partenza.

Il 1926 è un anno particolare per i Salesiani. Si è appena concluso il cinquantenario delle missioni volute da don Bosco (1875-1925) e, in Ecuador, lo si è celebrato introducendo le Figlie di Maria Ausiliatrice anche nelle missioni dell’interno, nella foresta. Valdocco ospita la grande esposizione missionaria (16 maggio-6 ottobre 1926) che dedica grande spazio proprio a quelle terre nelle quali suor Anna si accinge ad andare4.

Poi il 23 novembre a Genova si imbarca sul piroscafo “Venezuela”. Il racconto di questo primo incontro con il “mondo nuovo” è in una lettera che il 27 gennaio 1927 Anna scrive all’amica Emilia Pallai:

«Ci siamo imbarcate il giorno 23 novembre con 21 salesiani – cinque reverendi sacerdoti, sei chierici, gli altri coadiutori –, due suore professe e 4 novizie. Due sono andate al centro America (San Salvador) con una professa e noi siamo venute qui con l’altra suora professa. Il viaggio è stato lungo e a volte anche pericoloso, specialmente in terra, ma Gesù Buono e la nostra potente Ausiliatrice ci hanno tenuto la santa mano sul nostro capo e non ci è successo nessuna disgrazia. […]

La partenza è stata commovente; verso le 4 p.m. il piroscafo ha levato l’ancora e pian piano ha cominciato ad allontanarsi dall’amata e cara Patria. Molta gente stava sul molo per vedere la partenza, così pure le nostre care sorelle che ci avevano accompagnato.

Il piroscafo ha cominciato a poco a poco la sua rapida corsa, noi abbiamo continuato a contraccambiare il saluto con lo sventolio del bianco fazzoletto alle nostre care suore che sono state le ultime a rimanere sul molo. Abbiamo guardato finché la lontananza non ce le ha tolte dal nostro sguardo.

Dopo 29 giorni di navigazione, di cui dieci e mezzo senza vedere terra, siamo arrivate al porto di Guayaquil (Equatore). Alle 5 p.m. la signora Ispettrice e la signora Direttrice sono venute a prenderci in piroscafo, siamo discese alle 6 p.m., ringraziando il Signore per averci dato un buonissimo viaggio. Non posso dirle con quanto affetto e benevolenza ci hanno accolto queste care sorelle.

In questa casa abbiamo passato le feste del S. Natale e Capodanno, ma non ci sembrava che fosse né Natale né Capodanno perché il caldo si faceva molto sentire. Il giorno di Natale era a 32 gradi e mezzo, poi aumentava ogni giorno. Nella sera dell’ultimo giorno dell’anno hanno cominciato a piovere i grilli. In quel collegio hanno il tetto di zinco e si sentivano cadere sopra quel tetto come quando da noi cade la grandine. Sono grilli grossi, giallo scuro, entrano in casa, vanno dappertutto, mangiano la roba di lana e sporcano tutto. Al mattino se ne vanno, ma alla sera ricominciano di nuovo a piovere,

Siamo state in Guayaquil fino al quattro gennaio, poi siamo partite per Chunchi. Abbiamo viaggiato mezza giornata in treno […], ci siamo internate nei monti e alla stazione di Cincan scendiamo. Una delle nostre suore di Chunchi era alla stazione che ci aspettava coi cavalli e si doveva salire un monte di cui non si vedeva che ci fosse né strade né sentieri. Avevo paura a salire sul cavallo e ho detto: In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum. Poi, coll’aiuto del Signore, sono arrivata a Chunchi meglio che non mi credevo.

Il giorno 14 siamo partire da Chunchi ancora a cavallo colla reverenda signora Ispettrice e un’altra suora che andavano alla casa di Macás, tra i selvaggi. Abbiamo fatto una ripida discesa, appena fuori del paese, ad ogni passo che faceva il cavallo mi sembrava di cadere; il cavallo non voleva andare perché scivolava, io non sapevo farlo andare e nessuno lo guidava, sicché per un quarto d’ora, cioè finché non abbiamo finita la discesa, le gambe mi tremavano forte. Poi m’è passata la paura e abbiamo passato pericoli maggiori, ma non ho più tremato.

Siamo andate all’altezza di quattromila metri, un giorno e mezzo a cavallo, sempre in salite e discese. Il giorno 15 di questo mese siamo arrivate a questo tanto sospirato Noviziato di Cuenca dove siamo state accolte con tanta benevolenza da questa buona Madre Maestra e dalle novizie. Oh, se vedesse come sono questi nostri missionari e missionarie che sono venuti prima di noi, chi da tanti e chi da pochi anni, come sono sacrificati e dimentichi di se stessi e solo pensano alla salvezza delle anime e dar gloria al Signore. Suore, anche inferme, che chiedono di andare più in là dove ci sono i selvaggi (Chivari) che vivono nella foresta e per andarvi ci vogliono nove giorni da qui, due a cavallo e sette a piedi, sempre nella foresta, con indi che le portano il cibo per il viaggio, e poi come dormono!»5.

 

Attenzione ai Shuar, alias Kivari

Cuenca (nome totale: Santa Ana de los Cuatro Ríos de Cuenca), capitale della provincia dell’Azuay, sulla Cordigliera delle Ande, è una cittadina spagnola risalente ai secoli xvi-xvii, a 2600 metri di altitudine, con un clima definito incantevole.  Ma Chunchi, poi Macás, Méndez, Sucúa, Sevilla don Bosco… Il lettore può cercare questi nomi in internet e avere subito la visione di città moderne, piene di automobili, di strade, aeroporti, alberghi. Un secolo fa erano davvero un altro mondo: erano l’Oriente ecuadoregno fatto di immense foreste, privo affatto di strade, con pochi centri costituiti da capanne di legno e paglia attraverso i quali i coloni bianchi avevano tentato di penetrare in quello che era il regno dei “selvaggi”, le popolazioni Shuar, note con il nome improprio di Kìvari (Jívaros), famosi tagliatori e rimpicciolitori di teste.

L’avvicinamento di queste popolazioni è tentato dai missionari, non per ragioni di conquista, ma per evangelizzarle. Nel 1893 la Chiesa vi ha costituito il Vicariato Apostolico di Méndez-Gualaquiza retto da monsignor Luigi Costamagna e, ai tempi di suor Anna, monsignor Domenico Comini. Il Vicariato è una diocesi in fieri, affidata a un vescovo missionario, radicata in tante stazioni missionarie con cappelle, scuole, istituzioni caritative e socio-sanitarie che esprimono la volontà della Chiesa di portare salvezza non a delle generiche “anime”, ma a delle persone nella totalità del loro essere corpo e spirito.

Questa impostazione sarà molto importante. Sarà grazie ad essa che le popolazioni Shuar si lasceranno avvicinare dai bianchi e che questi cesseranno dal considerali selvaggi per vederli e trattarli come persone con pari diritti e pari dignità. Lo slancio della Chiesa verso l’interno dell’Oriente, cioè verso i Kivari, è ciò che colpisce subito Anna, mentre va ultimando il suo noviziato con la prima professione religiosa il 12 settembre 1927.

A maggio scrive un’altra lettera a Emilia Pallai accennando a questo slancio mentre descriva la vicina (si fa per dire) missione di Macás, a 2600 metri di altitudine:

«Che debbo dirle di questa cara missione? Io veramente ho visto poco ancora perché sono sempre in Noviziato, ma i miei Reverendi Superiori dicono che è una missione molto difficile quella dei Chivari perché girano sempre la foresta, un giorno sono in un posto, un giorno nell’altro, e non han bisogno di niente perché vanno vestiti come Adamo nel paradiso terrestre e mangiano quello che trovano nella caccia e frutti della foresta.

Quello ancora più difficile è il viaggio di qui alla casa di Macás, ci sono otto giorni di cammino, uno a cavallo e sette a piedi nella foresta, senza strada, in posti terribili senza sapere dove dormire e dove mangiare perché non vi sono che capanne di Chivari…»

E qui di dilunga a raccontare il pauroso viaggio da Cuenca a Macás della suora ispettrice, in mezzo a piogge dirotte, incontri con Kìvari in guerra tra di loro, animali ributtanti su quel suolo sul quale si dorme… e che dopo i terrori della foresta pare un paradiso6.

 

Il “battesimo” della foresta

Sarà proprio questo il viaggio che Anna compirà nel 1928 quando, fatta la prima professione a Cuenca il 12 settembre 1927 e trascorso un anno scolastico nel collegio di Chunchi quale assistente delle ragazze bianche, verrà destinata proprio alla missione di Macás. Accoglie la destinazione con apprensione, ma, nello stesso tempo con gioia.

Nel settembre 1928 intraprende il viaggio in compagnia di suor Domenica Barale e di due coadiutori salesiani. Monsignor Comin è solito chiamare quel percorso il «sentiero di Gesù mio misericordia» perché corre lungo i fianchi del temuto Monte Nero (3600 metri) dove tante persone sono morte colte da un misterioso malore. È un sentiero di quelli che i locali chiamano a pico, in certi punti percorribile solo da chi sa andare a piedi scalzi. Ecco l’inizio del viaggio nel racconto di suor Anna, o Anita, come ormai tutti la chiamano:

«Quando arrivai al punto più elevato della montagna, si scatenò una bufera terribile, con nebbia, pioggia e grandine e con un vento fortissimo… La mula su cui cavalcavo non voleva dare un passo in avanti, anzi, cominciò a girare su se stessa, col pericolo di scivolare nell’abisso… La pioggia e il vento mi sbattevano senza misericordia impedendomi di distinguere il piccolo sentiero e di orientare la povera bestia. Non potevo dire neppure un’Ave Maria perché il vento mi toglieva il respiro. Dicevo solo: Maria, Maria! e mi rassegnai a morire su quella montagna. La Madonna mi aiutò, la mula si mise a un tratto ad andare avanti e potei raggiungere i compagni di viaggio…».

Poi il racconto prosegue narrando la prima notte all’addiaccio sulla nuda terra, la messa del mattino, una comunione ricevuta con tanto fervore come mai in vita sua, un rinnovo con slancio dei voti e la promessa di non risparmiarsi mai nel portare il Vangelo nella foresta. E poi ancora a piedi su sentieri al limite dei baratri, fiumi, ponti improvvisati, discese a scivolo nella vegetazione putrida, attraversamento di fiumi a cavalcioni di un tronco o in canoa o a guado…

È il suo primo impatto con la foresta dei Kivari. E il primo incontro:

«Dopo tre giorni di cammino nella foresta, arrivate al fiume Paute che bagna la missione di Méndez-Cuchanza, vidi due shuar, marito e moglie, seminudi, seduti per terra, cacciando le mosche che si posavano sulla faccia e mangiandole come noi assaporiamo una caramella… Promisi di amarli e aiutarli con tutte le mie forze».

Non dimenticherà mai più quel viaggio, anche perché altri ne farà di simili prima che nelle sue missioni giungano strade, automobili, campi di aviazione. Quello, infatti, resterà come il suo “battesimo” della foresta, una vita nuova in un mondo nuovo.

 

Macás

Macás, capoluogo della provincia di Morona-Santiago e ora anche sede del Vicariato Apostolico di Méndez, fondata sul finire del secolo xvi dagli Spagnoli, aveva una stazione missionaria tenuta dai Domenicani che l’avevano lasciata nel 1887. Sui ruderi abbandonati dai Domenicani, i Salesiani impiantano nel 1925 la loro nuova missione, subito raggiunti dalle figlie di Maria Ausiliatrice. La comunità è composta di quattro salesiani e sei salesiane dirette da suor Maria Troncatti, l’eroica suora tutto fare che, nei tre anni da infermiera nell’ospedale militare di Varazze, durante la prima guerra mondiale, si era fatta una grande esperienza in medicina e chirurgia, ora quanto mai utile nel mondo primitivo della foresta.

Quando vi giunge suor Anna, la missione di Macás è una manciata di capanne, qualcuna poco più che un tetto di paglia; altre già ingentilite dal tocco europeo – vi abitano, infatti, anche diversi coloni – che inizia a trasformarle in case. La scuola femminile, come mostra una fotografia del 1927, è una grossa capanna con un vistoso tetto di paglia. Le salesiane vi accolgono, alla pari, sia le bimbe dei coloni, sia quelle dei Kivari, affettuosamente chiamate “kivarette”. Un ampio cortile delimita lo spazio delle attività educative: qui le fotografie mostrano suore che fanno girotondi, esercizi ginnici e altre attività ludiche con le piccole alunne.

È una capanna fatiscente anche la vecchia chiesa dei Domenicani, sorretta da un giro di pali (meglio chiamarli puntelli) che sembrano soltanto stanchi di difenderla dai venti e dalle piogge. Non è raro che, durante la stagione delle piogge, si debba tenere aperto un ombrello sull’altare mentre si celebra la messa. Sarà cura dei Salesiani sostituirla quanto prima con una civettuola chiesetta in legno dal tetto in zinco, affiancata dalle abitazioni da una parte dei padri missionari e dall’altra delle suore.

Sono tempi che dire eroici sembra retorica. Eppure, accanto a questo gruppetto di suore non c’è che il pericolosissimo fiume Upano e, sullo sfondo, la mole imponente del Sangay, 5300 metri sul livello del mare, il vulcano più alto del mondo; poi tutt’intorno foresta vergine e migliaia di indigeni Suhar.

Suor Maria Troncatti – che verrà solennemente beatificata nel 2012 proprio a Macás – ha aperto un significativo contatto con gli Shuar dopo aver salvato la vita alla figlia di un loro capo ferita da un colpo di arma da fuoco in una lite fra indigeni. Suor Maria scrive nel 1931:

«Non è una favola, è pura verità: sono proprio in mezzo a migliaia di indigeni, propriamente indigeni, in mezzo ad una immensa foresta. Gesù ha dato il proprio sangue anche per questi infelici. Se li vedeste quando si trovano davanti alla missionaria, con che rispetto; molti si ammazzano e se possono avvelenano anche i bianchi. Ma alla missionaria no: ci rispettano! Che festa quando ci incontrano, ci invitano nelle loro capanne e ci affidano i loro figli»7.

Il rispetto per le suore ha anche una motivazione: nella cultura shuar il segno di voler loro bene è il venire da lontano. E da tanto più lontano si viene, tanto più si dimostra di voler bene. Dicono perciò i kivari: «Le suore e il missionario a noi vogliono bene. Tanto da lontano sono venuti … Dove sarà la loro terra?». Ma questo non rende più facili le conversioni, tanto diversa è la loro cultura, tanto diversi soni i concetti di verità e divinità.

La vita delle suore a Macás è descritta in varie lettere delle suore e in articoli comparsi sulla stampa missionaria. Ecco poche righe di un articolo dell’Ispettrice suor Decima Rocca, scritto nel giugno 1929 da Macás:

« Suore eroiche. Quanti sacrifici devono imporsi le nostre sorelle e con quanta generosità li compiono!… Il clima, in generale, le esaurisce molto. Come le ho trovate magre!… Potessero almeno nutrirsi un po’meglio!… Il pane non lo vedono mai; la carne per poterla avere devono farla disseccare, e ci vuole stomaco buono per mandarla giù.

Ieri ho ricevuto una lettera da Suor Troncatti, che mi dice: “Sono due mesi che non si trova una goccia di latte e tutte le mattine la colazione consiste in un po’ di caffè nero e un pezzo di yuca!… Mi fan pena le Suore che, poverette, si sentono sfinite!…”.. Ma subito aggiunge: “La festa di Maria Ausiliatrice è riuscita molto solenne: due delle nostre kivarine han fatto la Prima Comunione!… Queste son gioie così grandi che compensano ogni sorta di sofferenze».

Mentre godo per aver sorelle così generose, mi si stringe il cuore al pensiero delle loro continue privazioni. Ero, come di solito, al verde; ma, ecco che mi si pagò un credito di 50 sucres; vi aggiunsi i pochi quattrini che avevo nel portamonete e feci loro spedire di qua una cassetta di latte condensato. Dio non permetta che debba stare in viaggio un mese e più, come capita spesso»8.

Pur assorbita da tanti impegni, suor Anna trova il tempo di dedicarsi all’apprendimento della lingua shuar per meglio capirli, conoscerli ed evangelizzarli. È nota la sua collaborazione con Angel Rouby, lo studioso della lingua e della cultura shuar giunto ventunenne a Macas nel 19299.

 

Giuanin dla fam

Guardando le corrispondenze di queste suore, si direbbe che le difficoltà materiali siano le meno sofferte. Quel che preoccupa di più è trovare una strategia per avvicinare la popolazione shuar, per superare le diffidenze e le incomprensioni così facili nel contatto tra due culture tanto diverse, nelle quali lo stesso gesto può avere significati opposti.

Ecco perciò la missione salesiana decidere l’unica via possibile: la carità verso i più piccoli: accolgono orfani, gemelli dei quali la cultura shuar condanna il più debole all’uccisione. Non è facile farseli consegnare, ma la cura che le suore ne hanno è tale che anno dopo anno le famiglie shuar consegnano loro anche gli altri figli per educarli, per insegnare loro a leggere e scrivere e anche per diventare cristiani, poiché l’esempio di carità appare trascinante.

Il sogno dei salesiani è che questi piccoli e queste piccole, diventati cristiani adulti, formino le prime famiglie e, con il loro esempio, attirino al vangelo anche gli altri shuar. Ma ci sono le lotte terribili degli stregoni. Ci sono episodi commoventi come quello del piccolo Giuanin dla fam, il bimbo raccolto e salvato dalle suore. Quel soprannome sa tanto d’Emilia e non può non richiamare suor Anna e le tante volte che anche lei, come le consorelle, lo ha preso in braccio e curato maternamente. Lo spirito della maternità è l’aspetto che, nelle suore, più colpisce gli shuar, tanto da chiamarle col termine castigliano di madrecitas.

Si può certamente dire che questi primi decenni della missione siano quelli delle kivarette: bimbe accolte in un internato, con programmi educativi proporzionati alle loro capacità e alle loro abitudini. Imparano a leggere e scrivere, a vestire, a cucire, a tessere le tele da cui ricavare i loro stessi abiti, a coltivare l’orto, a cucinare… Non è facile: per le tante che accettano perché scoprono un modo nuovo e migliore di vivere, tante sentono il richiamo della foresta e fuggono ritornando alla vita primitiva; tante, poi, vanno difese dal rapimento di chi le vuole spose forzate.

«Ne abbiamo delle buone – scriverà suor Anna nel 1961 –  ma anche delle tremende e bisogna proprio dire che il sangue non è acqua e bisogna pregare senza interruzione e senza stancarci». Alla fine, però, il dialogo tra persone diventa anche dialogo fra le culture e già un trentennio dopo sono gli stessi Shuar che giungono dalla foresta a portare figli e figlie perché vengano accolti ed educati. Un’operazione che costa sangue e sudore, ma che alla fine mette pace tra coloni e nativi la cui lotta era costata nel 1937 la distruzione totale della missione. Anche suor Anna, le sei consorelle e le kivarette erano rimaste senza un tetto, senza arredi, senza cibo. Un’altro incendio distruggerà, nel 1949, la missione di Sucúa, dove ancora si trova suor Anna.

Ciò nonostante, la presenza e l’opera dei missionari e delle missionarie dell’Oriente ecuadoregno giungono ad una meta invidiata in tutti gli stati latino americani: essi riescono a far decollare la Confederazione Shuar, un’organizzazione con la quale i nativi, in dialogo con lo Stato, difendono la propria terra e la propria cultura.

Non poco vi contribuirà anche il salesiano padre Bolla che giungerà a celebrare la messa indossando i costumi piumati degli indigeni, poiché evangelizzare non significa imporre una cultura a danno di un’altra, ma porre in ogni cultura, anche in quelle che il linguaggio del tempo definiva “primitive”, se non “selvagge”, il lievito del vangelo.

 

Il terribile morbillo

 Dopo che a Macás ha svolto tutte le funzioni che una suora può svolgere in situazioni ancor così difficili (dall’orto alla sagrestia, dall’infermeria alla cucina e, soprattutto, al catechismo), nel 1942 suor Anna diventa direttrice di casa nelle missioni di Méndez-Chuchanza, Sucúa e Sevilla Don Bosco, sempre nell’Oriente ecuadoregno, sempre fra le popolazioni shuar. Ciò nonostante è ancora lei ad avere cura del pollaio e a difenderlo dal “tigre” che, di notte, saltata l’alta recinzione, sbrana decine di preziosissime galline. E, con lei, tre coraggiose kivarette le quali, forti dell’esperienza della foresta, abbattono a bastonate la malcapitata bestia.

Generalmente l’incarico dura sei anni, poi la direttrice deve attendere la nuova destinazione. Diverse lettere di suor Anna ai parenti descrivono la sua vita a Méndez. Intanto va detto che, in mezzo a tanto fare, la vita di queste suore si caratterizza per un tanto pregare. Lo notano perfino le kivarette. E la preghiera è l’aiuto che chiede abitualmente alle persone alle quali scrive. Le sue sorelle Teresa e Rosa e i fratelli Giuseppe, Girolamo e Carlo si impegnano, da Razzolo, a raccogliere per lei soprattutto medicinali, aiutate in ciò dal dottor Favali di Castelnovo Monti e dalla farmacista Moratti di Villaminozzo.

E, a proposito di medicine, uno dei problemi più grossi che suor Anna deve affrontare sono le epidemie di morbillo, una malattia nuova per i nativi americani e troppo spesso mortale:

«Abbiamo avuto 60 kivarette malate di morbillo, di colpo, il dormitorio al completo. Qui il morbillo non è come in Italia, dove si sta a letto otto giorni al più, poi tutto è passato. Qui non è così. Durante il tempo della febbre passano le punte rosse in tutto il corpo. Sembra che sia già tutto passato, ma le kivarette ricadono peggio di prima con dolori di stomaco, diarrea, dissenteria che si fanno tanto magre che sembrano scheletri. Cominciarono ad ammalarsi ai primi di aprile e ancora a tutto giugno non stanno bene. Grazie che qui abbiamo un nostro ospedale col dottore che viene tutti i giorni. Se non ci fosse stato quello, quante ne sarebbero morte!».

Che grazia, poi, quando il morbillo le risparmia, come nel 1954, «anno mariano», tiene a sottolineare suor Anna. Nella missione di Yaupi l’epidemia provoca oltre duecento morti, tanto che non si trova chi li seppellisca tutti, ma a Méndez, dove la kivarette hanno solennemente promesso alla Madonna di essere più buone e più assidue alla preghiera e ai sacramenti, nessuna si ammala. Suor Anna lo scrive in un articolo del Bollettino Salesiano del 1° giugno 1955.

Benché a scrivere in italiano le scappi qualche parola o qualche costrutto in castigliano, suor Anna mostra di avere una buona capacità narrativa. Si veda, ad esempio, il lungo articolo scritto a sei mani con suor Maria Troncatti e suor Filomena Paronzini sulla vita quotidiana delle kivarette10.

 

La “potaglia” del papà

Le lettere di questo periodo, ritrovate presso i parenti di Razzolo, dicono di una suora attaccata quanto mai alla sua famiglia, alle sorelle e ai fratelli, desiderosa di conoscere e seguire i loro figli e “missionaria” anche nei loro confronti. Desiderosa che tra tante nipotine qualcuna si avvii a seguirla nella vita religiosa e nella missione. Ma rimane perplessa quando la nipote Anna, sua omonima, decide di farsi suora missionaria tra le Saveriane di Parma perché vestono in borghese e lei, invece, ha sperimentato quanto anche l’abito concorra a suscitare rispetto verso la religiosa. Poi, ovviamente, si ricrederà.

Una piccola curiosità: in una lettera da Méndez del 12 luglio 1957 chiede ai parenti di inviarle, in mezzo alle medicine, anche una zappa per l’orto e un “potaglio” (una grossa roncola) per potare gli aranci e i mandarini. Le inviano la “potaglia” che era stata del papà, riempiendola di commozione. Ci tiene a spiegare che non sarà lei a salire sugli alberi per potarli. Ci penseranno le kivarette, ben più svelte di lei che ormai ha toccato i sessant’anni, ad arrampicarsi sugli alberi per usare quello strumento.

Altra curiosità: sta bene di salute e ne dà il merito alla sua cura periodica che così descrive: il primo giorno si prende un bicchiere il succo di un limone; il secondo due e via fino a nove; poi si continua calando d’un limone al giorno. Lei la trova efficace e la consiglia anche ai suoi familiari.

In altra lettera da Sevilla don Bosco (una cittadina fondata nel 1963 dai Salesiani, oltre il fiume Upano, a 997 metri di altitudine) dice di non avere tempo per ammalarsi. Hanno una scuola con centinaia di kivarette e riferisce d’aver chiesto all’Ispettrice una suora maestra in più. Ha incontrato l’ispettrice a Quito dove si è recata in aereo e, a questo proposito, scrive alle sorelle: «Ho viaggiato per terra, per mare, per aria, a cavallo e a piedi, però il più che mi piace è viaggiare per aria. Si va proprio bene, senza stancarsi: è una meraviglia, e si arriva presto a destinazione».

In questi anni ci si rende finalmente conto di quanto il mondo della foresta sia cambiato. I sentieri sono diventati strade percorribili in automobile; le capanne si sono trasformate in case. Giungono l’elettricità e la radio. Le principali stazioni missionarie, ormai diventate “città”, sono dotate anche di un pur rudimentale ma efficiente campo di aviazione. Ma ciò che più conta, c’è convivenza tra coloni e indigeni che si sono avvicinati ai bianchi e hanno preso da loro quanto di meglio può migliorare la loro vita, a partire dall’alfabetizzazione e dal vangelo. I loro atavici costumi sono ormai indossati solo per la curiosità dei turisti. Le “tsantse” – le teste mozze dei nemici imbalsamate e ridotte a poco più di una palla da tennis – un ricordo da lasciare alla curiosità degli etnologi.

Il Bollettino Salesiano, che negli anni ’20 pubblicava foto di Shuar seminudi col volto deformato nelle labbra, negli orecchi, nel naso, potrà scrivere nel 1981: «Ottanta anni di attività missionaria hanno reso queste foto del tutto anacronistiche e superate».

La meraviglia del piccolo aereo che atterra e decolla nei pressi della missione chiede ben presto un prezzo troppo alto: il 25 agosto 1969 l’aereo, che a Sucúa ha appena imbarcato suor Maria Troncatti, a decollo quasi avvenuto precipita sul campo. Suor Maria è l’unica vittima.

 

La breve rimpatriata (1970)

Nonostante questo incidente, nel 1970, dopo quarantaquattro anni ininterrotti di vita missionaria nelle foreste andine, suor Anna ritorna in patria per due mesi. Ritorna a Razzolo, conosce di persona i nipoti nati dopo la sua partenza e i loro figli. Il borgo e la parrocchia la festeggiano. Il settimanale diocesano le dedica un articolo perché davvero suor Anna sembra ora una missionaria d’altri tempi e d’altri mondi. La Diocesi, per mezzo del Vicario generale don Giuseppe Mora, la ringrazia per una così diuturna dedizione a servizio del Vangelo e addita il suo esempio ai giovani in cerca di un Ideale (maiuscolo, perché è lo stesso Cristo) al quale consacrarsi11. Ma come è possibile – sembra chiedersi la gente – che una donna abbia fatto tanto in situazioni così difficili?

Nello stesso tempo suor Anna sembra avvertire il disagio di trovarsi fuori della sua missione. Rientra subito, con destinazione a Sevilla Don Bosco, pronta come sempre ad ogni servizio consentitole dall’età e dai non primi incombenti acciacchi.

Attorno alla sua persona corre la fama della biblica donna forte, della missionaria intrepida sullo stile di Madre Troncatti, infaticabile, «piena sempre di Dio e perciò stesso di una grande carica di umanità». Si legge nel suo profilo:

«Aveva un dono speciale per consolare, sdrammatizzare situazioni difficili, pacificare, aiutare a vivere in un clima di certezze soprannaturali. La sua passione per le anime la spingeva a visitare gli Shuar nelle loro kivarìe. Camminava ore e ore per trovarli, consolarli, catechizzarli, curarli e, molte volte, accompagnarli nell’ultimo passo verso il Paradiso. Solo il suo angelo custode ha potuto conoscere i sentieri intricati della foresta percorsi da suor Anita, contare i suoi passi prima leggeri e giovanili, poi sempre più pesanti e affaticati».

Trascorre così gli ultimi anni della sua vita. Non c’è tugurio degli Shuar che la spaventi. Nei villaggi dove già è stata eretta una cappella si ferma tre o quattro giorni per visitare le famiglie, fare il catechismo, preparare battesimi e prime comunioni. Raccoglie uomini, donne, giovani e tutti insieme si prega, si gioca, si canta e si eseguono danze tradizionali.

Se l’ammirano per i suoi atti eroici, dice: «Niente di tutto questo. Gli atti eroici Dio li chiede alle anime grandi, mentre io sono un’anima piccola piccola e per di più ignorante». Se ammirano la saggezza che promana dai sui atti e dalle sue parole, precisa: «Quando sono andata per chiedere la sapienza, il Signore mi ha detto che l’aveva data tutta a Salomone che era andato prima di me a domandargliela. Non volle però mandarmi a vuote. Ebbe compassione di me e mi diede un po’ di pazienza che davvero mi servì e mi serve tuttora».

 

«Se l’aereo atterrasse a Razzolo…».

La breve visita del 1970 e gli ormai più facili viaggi intercontinentali inducono la nipote Marta ad invitare suor Anna a ritornare ancora. Ma lei mostra di essere ancora una volta sulla stessa strada di madre Troncatti che mai aveva voluto ritornare in patria. Risponde scherzosamente che verrebbe volentieri se l’aereo potesse atterrare nell’orto di casa, a Razzolo.

A dieci anni dal primo, unico e ultimo ritorno, suor Anna sente tutti i limiti fisici dei suoi 84 anni compiuti. Non teme l’aereo, ma le ginocchia le dolgono, non se la sente di fare il viaggio in treno da Reggio a Roma e in auto da Roma a Razzolo. La risposta è anche un testamento spirituale: «Dunque, mia cara, facciamo il sacrificio e offriamolo a Dio per mezzo della nostra Madre Ausiliatrice perché ne avvalori il merito e ci dia poi la grazia di rivederci tutti nella Patria Beata dove faremo una bella festa che durerà per tutta l’eternità». Chiude esprimendo ancora una volta il desiderio che una ragazza della sua famiglia venga in Ecuador a prendere il suo posto.

Presentiva ciò che stava per accaderle? Nel 1980, mentre continua ancora a dare una mano nei lavori di casa e a fare il catechismo a piccoli gruppi di Shuar, eccola gravemente ammalata. La malattia covava da tempo, sopportata con nascosta e ilare pazienza. Ora esplode in tutta la sua gravità Esprime il desiderio di morire tra i suoi kivaretti e kivarette, ma i Superiori decidono di ricoverarla in una clinica della capitale Quito. Accetta in spirito di sacrificio e di obbedienza, ma inizia il suo ultimo viaggio aereo con grande malinconia. Dopo tre soli giorni di clinica, le condizioni precipitano. La madre ispettrice raccoglie queste sue ultime parole: «Ho tanto desiderio di andare in cielo. Dica alla Madonna che mi venga a prendere presto».

È il natale 1980. Il giorno seguente, il 26 dicembre, sarà il suo dies natalis.

 Poche settimane dopo, il suo primo biografo reggiano, Giacomo Casoli, scrive su La Libertà:

«La missionaria suor Anna Razzoli è certamente poco conosciuta nella Chiesa di Reggio, di cui pure è figlia e queste note vogliono proporla come esempio ai fedeli e alle religiose della nostra Chiesa e soprattutto alle giovani in cerca di ideali degni di essere vissuti fino in fondo»12.

Il cronista che ha redatto queste pagine, presa visione di tutti gli atti e i documenti consultati, non può che ripetere qui l’invito di Casoli ritenendolo oggi più attuale che nel 1981.

 

Note

  1. La Voce, organo cattolico della Montagna reggiana, 4 luglio 1913.
  2. Bollettino Salesiano, febbraio 1914.
  3. Numero unico Ricordo del Giubileo Sacerdotale del M.R. Alfonso Ferretti rettore di Cagnola, 10 novembre 1927.
  4. Bollettino Salesiano, novembre 1926, dicembre 1926, febbraio 1927.
  5. Carteggio di monsignor Leone Tondelli, Biblioteca del Seminario Vescovile di Reggio.
  6. Ibidem.
  7. Lettere di suor Maria Troncatti fms missionaria in Ecuador, Istituto Figlie di Maria Ausiliatrice, Roma 2013, p. 104.
  8. Ibidem, p. 255.
  9. J. Botasso, Los Salesianos y la Amazonia, Tomo III, Ed. Abya.Yala, Quiot 1993, p. 214.
  10. Gioventù Missionaria, n, 31, 1953.
  11. La Libertà, 25 luglio 1970.
  12. G. Casoli, Suor Anna Razzoli di Minozzo, La Libertà, 14 febbraio 1981.

 



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