“Tutta la terra appartiene a me. Ora, se accettate di ubbidirmi e rispettate l’alleanza con me, voi sarete la mia proprietà particolare, il mio popolo fra tutti gli altri. Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione consacrata al mio servizio” (Esodo, 19, 5-6)
Va affermata, prima di tutto, la centralità di Esodo nella Torah e nella Bibbia ebraica. L’ordine logico e cronologico pone Esodo dopo Genesi però l’analisi potrebbe far pensare che la stesura (definitiva) dei due testi sia opposta: cioè prima Esodo e poi Genesi; giacché Genesi fornisce i fondamenti teologici per la Legge mosaica e giacché Esodo fornisce spesso la spiegazione di alcuni episodi di Genesi. In Esodo si alterna una parte narrativa a una normativa. La prima racconta di Mosè, del popolo d’Israele, della uscita dall’Egitto, dell’attraversamento del deserto fino al Sinai – dove Mosè riceve da Dio la Legge. La seconda comprende: l’istituzione della Pasqua, l’etica teologica, le prescrizioni per il rito religioso.
Mosè
Mosè ha le caratteristiche dell’eroe. All’inizio del racconto il Faraone ha dato l’ordine di uccidere i figli maschi degli ebrei; ma la madre di Mosè lo allatta di nascosto e poi il piccolo, abbandonato sul fiume, viene trovato e adottato dalla figlia del Faraone. Il suo nome infatti significa, forse, “salvato dalle acque”. Nonostante sia cresciuto fra gli Egiziani, Mosè uccide un egiziano per difendere un ebreo ed è costretto a fuggire. Le condizioni del suo popolo, schiavo degli Egiziani, peggiorano. Finché all’Oreb (o Sinai) Dio chiama Mosè e gli affida la missione di liberare Israele. Ecco l’incontro fra Mosè e Dio: “Gli apparve allora l’angelo del Signore come una fiamma di fuoco in un cespuglio. Mosè osservò e si accorse che il cespuglio bruciava ma non si consumava” (Es, 3, 2).
A differenza di Genesi, dove le teofanie sono prevalentemente uomini o angeli, in Esodo Dio si manifesta come forza naturale o elemento originario – cioè come fuoco o nube o temporale. L’espressione “l’angelo del Signore”, invece, sembra sinonimo di “la potenza del Signore” oppure “l’aspetto del Signore”. Ora Mosè chiede a Dio il suo nome; e Dio risponde così: “Io sono colui che è” o “sarò sempre quello che sono” – ma esistono altre possibili varianti. All’inizio, dunque, Dio sembra voler rivelare più del suo nome la sua “essenza”: egli è l’essere in opposizione al niente o al divenire, alle cose del mondo che passano, agli uomini che muoiono, agli eventi che corrono lungo il filo del tempo. Dio è sempre e per sempre, senza tempo, anche se sta per irrompere nella Storia. Subito dopo, infatti, precisa che lui è Iahvè, il Signore, il dio di Abramo, Isacco e Giacobbe ricollegando dunque la sua apparizione alla promessa fatta ad Abramo. (Nella lingua ebraica Iahvè si scrive YHWH, ma il significato sarebbe ancora “Colui che è”. Il nome di Dio viene spesso reso in traduzione come “il Signore”, che ne accentua il significato e la potenza).
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