Quale «agire di Chiesa» per le unità pastorali?

Dall’attivismo all’ottica adottata da Gesù

La Chiesa in quanto comunità dei credenti sa che la sua presenza nel mondo per essere visibile si traduce anche in un agire espresso il più delle volte con attività, iniziative, interventi, gesti, incontri, riti, celebrazioni, feste ludiche oltre che in luoghi o templi sacri… E lo fa mossa dalla sua missione di annunciare la “buona notizia del Vangelo” e di donare la “grazia di Dio” a tutti coloro che la desiderano. Il tutto viene racchiuso nell’espressione “pastorale” o “azione pastorale” o “agire della Chiesa”, in passato era preminente l’espressione “fare apostolato”.
Non si tratta di esigenza pragmatica o di assecondare il bisogno di programmazione che c’è oggi, ma di rendere possibile il raggiungimento dell’obiettivo dell’azione della Chiesa, cioè permettere a Dio di incontrare gli uomini e agli uomini di incontrare Dio: un incontro quindi di salvezza.

L’agire della Chiesa è in questo senso “mediazione” tra Dio e gli uomini, tra il cielo e la terra, tra il divino e l’umano, non è fine a se stesso. È Dio che si rende vicino all’uomo e l’uomo che cammina verso Dio.
E per non cadere in un esasperato teocentrismo o in un esclusivo antropocentrismo occorre ricordare che la storia della salvezza ha in Gesù il suo centro, il suo agire; quante volte gli evangelisti riferiscono che Gesù passava di villaggio in villaggio per predicare e guarire ogni sorta di malati e cacciare i demoni (cfr. Mc 1,39; Mt 4,23. 9,35; Lc 8,1-3…), e le sue giornate erano piene di azioni che concretizzavano la sua missione (cfr. Matteo 8,1-16). Gesù è il grande e unico mediatore. Per questo il movente dell’azione pastorale della Chiesa è il principio cristologico, cioè l’agire di Gesù, il suo metodo, i suoi strumenti, le sue priorità, il suo muoversi, la sua logica nell’affrontare le varie situazioni, la sua passione per la volontà del Padre e la salvezza dei suoi fratelli. È Lui la via da percorrere perché l’azione della Chiesa possa essere strumento, segno, sacramento dell’agire del suo Signore.

Pertanto la Chiesa, anche nelle sue diverse forme di “porzione del popolo di Dio” (pieve – parrocchia – unità pastorale), è tra le case non per senso di potere, non per annullare tutto ciò che le sta attorno, non per imporre le sue visioni di vita, tanto meno per rendere più artistico il territorio, ma per far vedere, conoscere, accogliere l’amore di Dio per tutti, rivelatosi nel suo Figlio Gesù. Allora la sua azione è primariamente di testimonianza di vita delle persone che la compongono, una testimonianza non solo a parole ma anche con le opere e con “le buone strutture”, come dice papa Francesco, perché anche queste devono esprimere “la fedeltà della Chiesa alla propria vocazione” (cfr. Evangelii gaudium numero 26).

Ora mettere in atto la forma di Chiesa quale unità pastorale richiede di prendere in considerazione una mappa di azioni che la prassi cristiana del passato ha trasmesso sotto l’ombrello dell’espressione pastorale: una pluralità che domanda una certa programmazione con obiettivi e passi da compiere e proposte da attuare. Si è di fronte non tanto a un bellissimo puzzle da ricomporre o un telaio con tantissimi fili di colori diversi per far emergere un meraviglioso quadro, ma a una realtà di mistero quale è la Chiesa di Gesù che si concretezza in ogni periodo della storia dell’umanità.
Si può indubbiamente ispirarsi al modello della prima comunità di Gerusalemme come riferiscono gli Atti degli Apostoli 2, 41-47, oppure a tutta quella prassi di vita di Chiesa che si è declinata nel lungo periodo dell’alto e basso medioevo – con l’accentuazione da un lato sul versante sentimentale-devozionale della fede oppure dall’altro sul versante del rapporto tra fede e ragione, specialmente con l’avanzare del razionalismo e dell’influsso del fenomeno dell’illuminismo – oppure poggiarsi a tutta quella normativa che prima tridentina e poi del codice di diritto canonico aveva promosso per una strutturazione inerente ai periodi storici in cui anche l’agire della Chiesa si è trovato di fronte, oppure aprirsi a tutto quel ventaglio di riflessioni sull’essere Chiesa che il Concilio Vaticano II ha messo nelle mani operative delle comunità credenti.

Continua a leggere il testo integrale di Giancarlo Gozzi su La Libertà del 3 aprile

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