Narrare il genocidio 25 anni dopo

Il film «Rwanda» a Campagnola e le altre proposte del Gruppo Amahoro

Tutti noi ricordiamo esattamente dove eravamo l’11 settembre 2001. Cosa stavamo facendo, con chi, come siamo stati rapiti dalle immagini di quelle torri, lontane 6.500 kilometri dalle nostre case.
Pochi di noi, forse, ricordano con altrettanta esattezza dov’erano il 6 aprile 1994 e cosa stesse accadendo a poco più di 9.000 km da Reggio Emilia. In quella notte, infatti, con l’abbattimento dell’aereo su cui viaggiava il presidente Habyarimana, 125.000 estremisti Hutu rwandesi ebbero l’occasione giusta per fare quello che da anni si ripromettevano: “Eliminare tutti i Tutzi dalla faccia della terra”. Dalla stazione radio delle Mille Colline (nota per fare propaganda di odio contro il popolo dei Tutzi) parte il messaggio: “È arrivato il momento! Tagliate gli alberi alti. Schiacciate quegli scarafaggi”.

Daniele Scaglione, nel libro “Rwanda. Istruzioni per un genocidio”, propone un semplice ma efficace paragone tra questi due eventi: nell’attentato al World Trade Center sono decedute 2.893 persone, in Rwanda dal 6 aprile al 19 luglio 1994 sono morte così tante persone che è come se entrambe le torri gemelle fossero state abbattute 3 volte al giorno, per 104 giorni di fila. Tre mesi, 10.000 morti al giorno, 400 ogni ora, 7 al minuto. Numeri che, messi vicini, evidenziano la portata devastante del genocidio rwandese e dell’omissione internazionale, e che dimostrano anche quanto noi possiamo aver vissuto questo pezzo di storia con una fisiologica distanza: quella che ci tiene emotivamente lontani da tutto ciò che accade nelle ‘periferie del mondo’.

Fortunatamente il 6 aprile 1994 don Gigi Guglielmi non aveva il cuore lontano dal Rwanda: per lui era il paese dove aveva operato ed era morto il fratello Tiziano, un luogo amato e visitato più volte con quello che oggi è il “Gruppo Rwanda Padre Tiziano”. Fu don Gigi a coinvolgere prima la Caritas e poi l’intera Diocesi in un progetto in risposta al genocidio. Nacquero così le case Amahoro, dei semi di pace e di fratellanza, dei luoghi di servizio ai più piccoli e di accoglienza senza distinzioni, ancora presenti nel Paese delle 1.000 colline.

Leggi tutto l’articolo a firma Gruppo Amahoro su La Libertà del 27 marzo

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