Il clero reggiano e la Grande Guerra

Il coinvolgimento del clero reggiano è una storia sostanzialmente non ancora scritta nei suoi dati generali e, nelle vicende individuali, in gran parte scomparsa con la morte dei protagonisti. Può essere senz’altro definita una storia di sofferenza e di dedizione.

Dal 1878, dopo l’occupazione di Roma, l’Esercito Italiano aveva eliminato dai suoi ranghi, i cappellani militari; i sacerdoti e i religiosi erano chiamati a compiere il regolare servizio di leva come semplici cittadini, anche se era abbastanza frequente che le famiglie – usufruendo di una legge del tempo – ricorressero alla loro sostituzione mediante un parente o un giovane appositamente pagato; un espediente che, però, a Reggio diventa sempre più difficile a mano a mano che la maggior parte dei sacerdoti, come lamenta monsignor Manicardi, proviene da famiglie povere.
Nell’imminenza della guerra del 1915-1918, considerando il grande valore morale dell’assistenza religiosa, il generale Luigi Cadorna istituisce il servizio dei cappellani militari coordinati da un vescovo castrense, monsignor Bartolomasi (già noto a Reggio per avervi predicato la grande missione cittadina dal 6 al 16 novembre 1913) e provenienti un po’ da tutte le diocesi italiane.
Il coinvolgimento del clero reggiano è una storia sostanzialmente non ancora scritta nei suoi dati generali e, nelle vicende individuali, in gran parte scomparsa con la morte dei protagonisti. Può essere senz’altro definita una storia di sofferenza e di dedizione. Di sofferenza perché la Chiesa reggiana, conformemente al vangelo e seguendo l’insegnamento dei pontefici, lotta perché l’Italia resti estranea al “flagello della guerra” e preferisca la risoluzione pacifica delle controversie internazionali. Essa subisce perciò anche l’accusa di antipatriottismo e l’odio politico di chi va definendo “lordure” le prediche contro il “non dover fare la guerra”.

Continua a leggere tutto il testo su Memoria Ecclesiae, l’inserto storico de La Libertà del 14 novembre

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