“E poi, lo sai, non c’è/ Un senso a questo tempo che non dà/ il giusto peso a quello che viviamo.
Ogni ricordo è più importante condividerlo/ Che viverlo”.
Mi ricordo del tormentone un po’ datato di Fedez e J-Ax mentre sto appollaiata alla meglio su un gradino, in un treno stipato di pendolari e di studenti. Davanti a me due ragazze si truccano con cura, si specchiano nello smartphone, scattano selfie. “Le foto sono per Instagram, iniziamo l’università…”, sorridendo si giustificano con un uomo di fronte a loro che osserva divertito tutta l’operazione. E come per associazione mi torna in mente la risposta di una studentessa, intenta a scattarsi decine di primi piani sullo sfondo del Colosseo in una gita di due anni fa: “Prof un attimo, non lo faccio per me: è per Instagram!”. Mi è rimasto il dubbio da allora: chissà se lo ha guardato direttamente almeno una volta, quel benedetto Colosseo, o se lo ha visto solo formato pixel, nell’archivio immagini del telefono?
Poco più di cinquant’anni fa Guy Debord dava alle stampe La società dello spettacolo (1967). Quando ancora non esistevano i social, in un’epoca nella quale “l’era della televisione” era agli esordi, questo regista/filosofo di estrazione marxista preconizzava in 221 tesi lapidarie l’avvento di un mondo caratterizzato dal predominio delle immagini: così forti e pervasive da insinuarsi nelle dinamiche quotidiane fino a rimodellare la realtà, persino a sostituirla. Debord era convinto che l’uomo si sarebbe prima o poi ritrovato sottomesso a una crescente “spettacolarizzazione della vita”, e che questa sarebbe stata semplicemente un’altra forma di costrizione: più infida, però, perché molto più indolore e persino attraente. Il dominio dell’economia, afferma l’Autore, aveva già fatto sì che il criterio per valutare ogni questione non fosse più l’essere, ma l’avere. I nostri tempi sarebbero protagonisti di un ulteriore cambiamento: “La fase presente […] conduce a uno slittamento generalizzato dall’avere all’apparire, da cui ogni ‘avere’ effettivo deve trarre il suo prestigio immediato” (tesi n. 17). E in effetti nella nostra epoca social le cose sembrano andare proprio così: cosa ce ne facciamo di tanti “averi” se nessuno lo sa? A cosa mi servono viaggi ed esperienze se non posso condividerli ed esibirli? Debord commenterebbe che “ogni realtà individuale è divenuta sociale, direttamente dipendente dalla potenza sociale e modellata da questa” (ivi). Facciamo di tutto per mostrarci, per essere visti. Tutti presi in questo meccanismo, intenti a “produrre” il nostro personale mondo di immagini e a selezionare i dettagli che vogliamo fare apparire, finiamo per trovarci separati dal mondo stesso. “Quanto più la vita è ora il prodotto [dell’uomo], tanto più [l’uomo] è separato dalla sua vita” (tesi n. 33).
Questi siamo noi, secondo Debord. La storia sembrerebbe avergli dato ragione.
Eppure… eppure qualcosa sfugge allo schema.
Dietro ai post, ai selfie e ai social, dietro a questo continuo bisogno di conferme e di like pulsa una prepotente, muta domanda: “Guardami, guarda me!”. Prendimi nel tuo sguardo, prendimi nei tuoi pensieri, dimmi che ho valore.
Devo a una splendida lezione del giornalista Giuseppe Frangi l’incontro con il poeta/pittore John Berger e con il suo libro My beautiful (2004). Osservando un volto scolpito da Luca della Robbia in pieno Quattrocento, Berger commenta: “era bellissimo. Mi riferisco alla sua presenza […]. Il suo viso vi dà la certezza che vi sta guardando. Qui la bellezza non è quel che vi piace contemplare, ma ciò da cui volete essere guardati. La bellezza è la speranza di essere riconosciuti dall’esistenza di quello che state guardando, e di esservi inclusi”.
Ecco il segreto, ecco cosa mancava. È vero, cerchiamo sempre qualcuno da cui essere guardati. Il nostro sguardo non è sufficiente, il nostro volto non ci basta: nostalgia di un orizzonte presente ora, capace di abbracciare il nostro esistere, di dirgli la sua origine e il suo senso, di accoglierlo nella sua luce. Speranza che quello splendore che tanto ci attrae c’entri con noi, che sia la vera e decisiva parola sulla nostra vita e sul nostro destino. Vogliamo essere guardati: guardati dalla Bellezza.
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