Lettera dei vescovi siciliani a 25 anni dall’appello di Giovanni Paolo II

Prolungare sino a noi l’eco del profetico appello alla conversione lanciato da san Giovanni Paolo II ai mafiosi, in Sicilia, il 9 maggio 1993: è il motivo della Lettera che i vescovi siciliani pubblicano nel venticinquesimo anniversario di quell’evento, riunendosi di nuovo a concelebrare l’eucarestia nella Valle dei Templi, all’ombra del tempio greco della Concordia che ispirò al papa polacco l’augurio rivolto all’Isola intera e a tutti i suoi abitanti: “Carissimi, vi auguro di andare in pace e di trovare la pace nella vostra terra. Concordia senza morti, senza assassinati, senza paure, senza minacce, senza vittime”. Non era in guerra contro nessuno, la Sicilia, in quel momento. Né si stava difendendo da una delle tante invasioni che hanno sempre travagliato la sua storia. Eppure si ritrovava assediata dal suo stesso interno, da decenni ormai violentata da un esercito di predoni “indigeni”, ovunque nel resto del mondo tristemente noti: i mafiosi di Cosa Nostra, ai quali s’erano aggiunti nel corso degli anni quelli della Stidda, criminali anche loro non meno di quegli altri.

Il cardinale Salvatore Pappalardo, nel 1982, durante il funerale del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, caduto vittima proprio in un agguato mafioso assieme alla moglie e a un agente di scorta, ne aveva denunciato le sanguinose malefatte usando – appunto – la metafora dell’assedio, entro la cui morsa la Sicilia capitolava, senza che il resto del Paese riuscisse a venire in suo soccorso. Sagunto viene espugnata, mentre a Roma si chiacchiera: aveva scandito questa citazione di Tito Livio l’arcivescovo di Palermo, pronunciandola in latino e subito traducendola, davanti alle più alte cariche dello Stato sedute in prima fila, quasi accanto al feretro del generale che aveva mosso battaglia contro le cosche, perdendoci la vita. Un’invettiva contro la mafia, dunque. Ma, al contempo, un implicito j’accuse per rinfacciare allo Stato e ai suoi funzionari la loro inefficienza, fors’anche l’inconfessabile connivenza di alcuni di loro. Un monito politico e sociale, che sulle labbra di un alto ecclesiastico quasi riecheggiava – mi pare di poter dire – i toni della questione romana.

Ad Agrigento, il timbro di papa Wojtyła vibrava con la medesima veemenza. Ma le sue parole suonavano nuove. Quello di Giovanni Paolo II non era più soltanto un grido di denuncia, bensì pure un invito – vigoroso e serio – alla conversione: “Questi che sono colpevoli di disturbare questa pace, questi che portano sulle loro coscienze tante vittime umane, debbono capire che non ci si può permettere di uccidere degli innocenti. Dio ha detto una volta: non uccidere! Non può l’uomo, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare o calpestare questo diritto santissimo di Dio! Lo dico ai responsabili: Convertitevi! Una volta, un giorno, verrà il giudizio di Dio”.

Continua a leggere l’articolo di Massimo Naro su La Libertà del 16 maggio



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