La missione? Incontrare l’uomo

Intervento del Vescovo al Consiglio Pastorale diocesano del 27 gennaio scorso

La mia vita è determinata da tanti incontri e da molte passioni. In fondo, tutte le passioni sono radicate in un’unica passione: quella di Cristo. Cristo non mi divide dagli altri. Anzi, me li fa incontrare secondo la logica della carità che è paziente e benigna (cfr. 1Cor 13,4). Stando assieme agli altri, comunico l’amore che mi muove. Certo, non posso sapere se l’altro coglierà le ragioni profonde che mi muovono verso di lui, ma questo non importa. Non dobbiamo stabilire a priori cosa offrire alle persone. Ciascuno desidera tutto. Il tutto però gli viene dato secondo un disegno misterioso, che non possiamo preordinare secondo i nostri disegni.

Spesso siamo vittime di schemi che ci costruiamo da noi e che ci dividono dagli altri. Nella mia vita non ho mai sentito come problema il parlare con una persona che non crede. Ho però sentito una passione enorme per fare conoscere Cristo a chiunque. Non ho mai avuto la pretesa di dire agli altri i passi che devono fare in questa scoperta. Ogni persona ha un cammino, ha un mistero dentro di sé. Essere amici è già una cosa meravigliosa, una profezia del futuro. Non perché credo nel cristianesimo anonimo, ma perché credo ai percorsi di Dio.

Noi non dobbiamo catturare nessuno, tutti sono già stati catturati da Cristo (cfr. Fil 3,12). Ciò non significa spegnere la missione, ma rispettare i percorsi di Dio. È Dio che realizzerà un’esplicitazione della fede secondo i suoi disegni. Altrimenti diventiamo clericali perché vogliamo essere al centro di tutti i percorsi del mondo. Ma al centro dei percorsi del mondo c’è l’Eucarestia, non ci sono io.

Vivere ciò che Cristo ci ha donato
La missione nasce da una passione e quindi è costitutiva dell’evento ecclesiale. Infatti se una persona ama non può non raccontare il suo amore. Tuttavia non si può definire come questo annuncio sarà recepito. La Chiesa si sta riducendo nella sua presenza. Non ne sono felice, ma anche questo è un segno di Dio. Viviamo con le persone che ci sono e cerchiamo di rendere luminose le nostre piccole comunità. È tutto ciò che possiamo vivere in questo momento, ma forse è l’inizio di qualcosa di grande e di bello per tanti uomini. Dio non ci ha chiesto di reggere il mondo sulle nostre spalle, ma di partecipare alla vita di suo Figlio. Anzi, non ce l’ha neppure chiesto, ce l’ha regalato.

Le nostre comunità però devono convertirsi, perché nella maggior parte dei casi sono chiuse. Non dobbiamo inventare delle strade per aprirci. Le strade sono la gente, l’uomo è la via di Cristo. Incontriamo uomini e donne, apriamo le nostre case, usciamo dalla logica delle sagrestie! Quando mi dicono che i bambini vanno a catechismo ma non a messa, sono rattristato. Partiamo però dal fatto che a catechismo vengono! Non immaginiamo un’età dell’oro che non c’è stata. Ho settant’anni e da settant’anni sento dire che non ci sono più i giovani.

Costruiamo itinerari di introduzione al cristianesimo. Non leghiamo i percorsi con fissità alla prima comunione, alla prima confessione, alla cresima. Così diamo alle famiglie l’idea di una tassa da pagare. Usciamo da questi schemi pastorali che ci siamo costruiti negli ultimi cinquant’anni. Cerchiamo di entrare nella logica divina della vita, nella logica dei desideri, degli incontri, di ciò che affascina. Portiamo i ragazzi a teatro, al cinema, a fare una gita, leggiamo con loro un libro, discutiamo assieme sui temi che li toccano. Basta con l’“ecclesialese”! Cerchiamo di parlare delle cose della vita, dei poveri, del lavoro, della scuola, riduciamo all’essenza le strutture ecclesiali. Abbiamo costruito un’enormità di strutture che ora ci gravano come spese, non sappiamo come occuparle e non abbiamo risorse per tenerle aperte.

Continua a leggere tutto l’intervento del vescovo Massimo Camisasca su La Libertà del 28 marzo



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