“Siamo fuggiti dalla Siria, il nostro Paese, perché non volevamo uccidere, né essere uccisi, abbiamo pagato un prezzo enorme per la nostra libertà, desideriamo vivere liberi e con dignità. E vogliamo tornare in pace nella nostra Patria” (Abu Rabia, siriano, a Trento da circa un anno grazie ai Corridoi Umanitari).
è da questa affermazione di umanità che in tanti hanno pensato e scritto una Proposta di Pace per la Siria. Anche la Caritas diocesana di Reggio Emilia – Guastalla aderisce e sostiene questa iniziativa, nata da Operazione Colomba (Corpo Nonviolento di Pace dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII) e ha sottoscritto l’appello.
Storie di profughi dal Libano
Il 5 agosto 2017, al termine della nostra visita al campo profughi di Tel Abbas in Libano, Alessandro, amico e volontario che vive nel campo insieme alla comunità siriana, ci ha salutato dicendo: “Qui le persone vivono nell’incertezza e nell’abbandono, muoiono in silenzio. Fate in modo che le loro storie vengano conosciute”. Questa eredità non può che spingerci a continuare a condividere alcuni racconti dei profughi siriani, attraverso la loro voce e quella di chi ancora è con loro e li accompagna nella quotidianità.
Marco, Maria, Nicolò
Caritas diocesana
e Case della Carità
Y. è un ragazzo siriano di 30 anni. Ha tre figli bellissimi, due dei quali ci vengono incontro all’ingresso dell’ospedale insieme alla zia. Quindi entriamo e insieme cerchiamo di capire dove hanno ricoverato il padre. è in un’ala particolare dell’ospedale: per poterlo visitare bisogna oltrepassare una porta blindata e avere il permesso della guardia che ti apre. Spieghiamo che siamo un’organizzazione, lasciamo i nostri passaporti e siamo dentro.
La guardia ci accompagna nella camera di Y.: una cella.
Insieme a lui ci sono altre persone ricoverate, cinque, forse sei, ma attraverso la porta che abbiamo davanti, che è tutta bucherellata, si fa fatica a vedere. Lui si avvicina a noi con una carrozzina perché è talmente magro e debole che non si reggerebbe in piedi. Ci presentiamo, gli spieghiamo che siamo un’organizzazione di volontari qua in Libano e che siamo a conoscenza della sua situazione. Gli diciamo anche che fuori dalla porta ci sono i suoi bambini che lo salutano. Lui piange.
Y. è stato arrestato dall’esercito libanese ormai un anno e mezzo fa perché sprovvisto di documenti e ora è da qualche settimana ricoverato in ospedale perché gli è stato diagnosticato il Morbo di Crohn (malattia infiammatoria cronica dell’intestino). La detenzione in prigione e la malnutrizione che ne deriva hanno peggiorato la situazione clinica di Y. provocando una carenza di proteine ed enzimi fondamentali per il metabolismo. Per ristabilire dei livelli sufficienti a scongiurare il pericolo di vita è necessario procurare al più presto un medicinale molto costoso.
La comunicazione però è un po’ difficile a causa di questa porta che abbiamo davanti che non ci permette di sentire la sua fievole voce.
È molto stanco, si vede.
Lo salutiamo e la guardia ci accompagna all’uscita dove ci sono i bambini in trepidazione perché sperano di vedere il padre. Impossibile, non è giorno di visite. Eppure la guardia li rassicura: Y. sarebbe uscito dalla cella per fare un controllo e sarebbe passato proprio lì davanti.
Allora decidiamo di aspettare ancora più emozionati di prima per permettere ai bambini di vedere il padre dopo tanto tempo. I minuti sembrano eterni e gli occhi sono fissi verso quella porta di ferro sperando che si apra da un momento all’altro.
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