«L’Apologia di Socrate»: teoria dell’eroe e coerenza del vivere

Nel 399 a. C. ad Atene il filosofo Socrate venne condannato a morte. Al processo dello Stato contro di lui, il filosofo pronunciò, come prevedeva la legge ateniese, il discorso di difesa che Platone ripropose, dopo la sua morte, nella Apologia di Socrate – forse la sua prima opera. Platone era presente al processo. Per due volte si fa citare da Socrate fra i presenti. Egli vuole con ciò, evidentemente, darci una garanzia di autenticità su ciò che scrive. Certo è probabile che egli abbia rielaborato, scrivendo, il discorso di Socrate ma è anche probabile che ne ricordasse bene gli argomenti e i passaggi fondamentali.
L’Apologia di Socrate è un piccolo grande libro. Fin dalle prime parole, con le quali Socrate traccia le linee della sua difesa: “Il compito di chi parla è di dire la verità”. Egli, Socrate, non è un oratore, non è un sofista, abile nell’uso della parola; egli è un cattivo oratore, ma col culto della verità. A questa egli affida la sua difesa dalle menzogne, antiche e nuove, che circondano la sua persona.

Le accuse contro Socrate erano tre: di non credere negli dei della città, di voler introdurre nuove divinità e di corruzione dei giovani. Anche gli accusatori erano tre: Anito, un politico, Meleto, un commediografo, Licone, un oratore (essi appartenevano a tre categorie fatte oggetto di ironia da parte del filosofo). Dietro di loro, però, c’era una città ferita. Atene usciva da una guerra perduta (la guerra del Peloponneso) e da una dittatura sostenuta dagli Spartani (i trenta tiranni). La nuova democrazia guardava alla passata grandezza di Atene e vedeva nella nuova cultura e nella nuova educazione la causa prima della decadenza. Cercava, perciò, forse, un capro espiatorio o comunque una vittima illustre, per dare un esempio e un segnale forte di cambiamento.
Socrate sembrava proprio la persona giusta. Contro di lui, infatti, giocava la sua stessa fama. Fra le tante dicerie sul suo conto, raccolte dal commediografo Aristofane ne Le nuvole, anche l’idea che si interessasse di ricerca scientifica e che fosse il più sofista fra i sofisti.

Sapere di non sapere
Iniziando la sua difesa, Socrate racconta la storia di Cherefonte e dell’oracolo di Delfi. Cherefonte era un suo vecchio amico di giovinezza. Trovandosi a Delfi, aveva domandato all’oracolo se vi fosse alcuno più sapiente di Socrate e la sacerdotessa aveva risposto che “nessuno era più sapiente”. Cherefonte, tornato ad Atene, racconta a tutti ciò che ha saputo. Socrate è quello che si meraviglia di più, tanto da decidere di approfondire la cosa.
Ha inizio, a questo punto, un singolare balletto, raccontato da Socrate con notevole candore e sorprendente ironia. Prima di tutto egli si reca da un importante uomo politico, il quale aveva fama “agli occhi di altri molti e particolarmente di se medesimo, di essere sapiente” e scopre che le cose stanno esattamente all’opposto, l’uomo “credeva essere sapiente, ma non era”.
Socrate cerca di comprendere il senso dell’oracolo verificando la sapienza dei politici, dei poeti, degli artigiani.
La conclusione è più o meno eguale per tutti, anche se per motivi diversi, e cioè: i politici, coloro che dovrebbero essere i più sapienti, avendo la responsabilità della polis, non sono sapienti in nulla; i poeti sono sapienti solo quando fanno poesia e quindi non per virtù propria, ma per virtù del dio che li ispira; gli artigiani sono sapienti nel proprio lavoro, ma in seguito a ciò reputano di potere o di dovere dire la loro opinione su cose di cui non s’intendono affatto. In ogni caso, si può concludere che nessuno è immune dal solito errore: credere di sapere e non sapere.

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