Tre nuovi figli per Chiozza

Un anno fa l’unità pastorale «Pieve di Scandiano» ha accolto 3 giovani richiedenti asilo: in dodici mesi essi hanno incontrato una mamma, un padrino, una nonna e tanti fratelli

Una canonica vuota e il desiderio di fare qualcosa per chi si trova ad affrontare un momento di difficoltà.
Sono questi gli elementi che hanno portato la comunità di Chiozza e poi l’intera unità pastorale “Pieve di Scandiano” a fare un nuovo passo verso l’accoglienza.
Nel gennaio 2017, nell’ambito degli accordi tra Caritas diocesana e Prefettura di Reggio Emilia, sono arrivati a Chiozza Hassan, Thomas e Moustapha, tre giovani africani che hanno fatto richiesta di asilo politico in Italia. Oggi i tre, poco più che maggiorenni, sono tutelati dalla cooperativa sociale “L’Ovile” che è subentrata a Caritas nella gestione del progetto. La Caritas diocesana rimane un punto di riferimento per il gruppo dei volontari e per le attività svolte.

«Chi è il mio prossimo?»
“La comunità di Chiozza – spiega don Enrico Ghinolfi, parroco moderatore dell’unità pastorale – non è nuova ad esperienze di accoglienza. In questo caso però si trattava di ospitare persone per un periodo di tempo ben più lungo e il desiderio di accogliere si è dovuto confrontare con le paure degli altri abitanti del paese. Una sera, prima che l’accoglienza iniziasse, abbiamo convocato un’assemblea aperta a tutti. Siamo partiti dalla parabola del Buon Samaritano e, un poco alla volta, abbiamo fatto esperienza dell’essere liberati dalle paure. Riflettendo sulla domanda «Chi è il mio prossimo?» ci siamo detti che quando siamo nel bisogno, chiunque ci sia vicino è un dono. Per questo abbiamo scelto di tenere a freno le paure e di non mettere limiti alla nostra capacità di amare”.

“Abbiamo accolto questi tre giovanotti – gli fa eco il neo diacono scandianese Enrico Turrini – che non hanno fatto altro che demolire tutti i muri che si erano eretti alle assemblee di paese. Perché quando sono arrivati abbiamo potuto constatare che sono in tutto simili ai nostri figli: non staccano gli occhi dal cellulare e hanno in testa solo lo sport e le ragazze”. “Avevamo creato delle etichette e li avevamo giudicati prima che iniziasse l’accoglienza – prosegue il volontario Stefano Romani – poi la conoscenza, il rispetto reciproco e l’umiltà hanno fatto cadere i pregiudizi. Ora sono come nostri fratelli”.

Continua a leggere tutto l’articolo di Emanuele Borghi su La Libertà del 23 dicembre

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