Tutta la luce del mondo

In Giallo e rosa (ultimo capitolo di Don Camillo) Guareschi racconta gli eventi immediatamente successivi all’uccisione a sangue freddo di un uomo – tal Pizzi –  ad opera dei “rossi”, davanti agli occhi della moglie e del figlioletto, in un crescendo di tensione politico-ideologica. In paese tutti conoscono la verità; per paura nessuno parla. Persino i familiari tacciono per timore di ritorsioni, avallando l’ipotesi del suicidio: il poveretto pertanto non sarà nemmeno sepolto in terra consacrata.

Don Camillo, ben consapevole della situazione, mette in dubbio la versione ufficiale turbando la tranquillità di tutti. Si trova così improvvisamente solo, criticato anche dai suoi fedelissimi; e c’è chi vorrebbe farlo tacere per sempre. In una fredda serata, mentre egli si trova in chiesa intento a restaurare il suo amato Crocifisso, dall’esterno qualcuno spara. Lo salva un provvidenziale intervento del Cristo, che stacca la mano dal legno della Croce per spostare la testa del curato. I rilevamenti dei carabinieri confermeranno poi quanto Don Camillo è certo di aver sentito: erano in due a sparare.

La sera seguente il parroco, impegnato a ridipingere le statuette del presepe nell’imminenza del Natale, riceve la visita di un Peppone scosso e arrabbiato. «Ne avete ancora per molto tempo?» sbotta il sindaco, che ha evidente bisogno di parlare. «Se mi dai una mano, in poco si finisce» è la replica. E così Peppone si ritrova a dipingere la statua del Bambino Gesù: «Peppone si trovò in mano la statuetta senza sapere come, e allora prese un pennellino e cominciò a lavorare di fino. Lui di qua e don Camillo di là della tavola, senza potersi vedere in faccia perché c’era, fra loro, il barbaglio della lucerna». Nel frattempo i due parlano e la verità sugli eventi della sera prima viene a galla: l’assassino del Pizzi ha tentato di uccidere anche Don Camillo. Peppone, presagendo il fatto, si era appostato di guardia vicino alla canonica per impedirglielo. Quando il primo ha sparato, anch’egli di rimando ha fatto fuoco senza colpirlo né vederlo.

Questa catena di violenza sembra aver scavato un solco nel cuore di Peppone, che confessa di sentirsi isolato, solo e amareggiato. «“C’è qualcosa che non va. […] Mi sento come in galera”, disse cupo». Qualcosa, però, lo costringe improvvisamente a cambiare prospettiva. «Ormai il Bambinello era finito e, fresco di colore così rosa e chiaro, pareva che brillasse in mezzo all’enorme mano scura di Peppone. Peppone lo guardò e gli parve di sentir sulla palma il tepore di quel piccolo corpo. E dimenticò la galera. Depose con delicatezza il Bambinello rosa sulla tavola e don Camillo gli mise vicino la Madonna. “Il mio bambino sta imparando la poesia di Natale” annunciò con fierezza Peppone. “Sento che tutte le sere sua madre gliela ripassa prima che si addormenti. È un fenomeno”. […] Uscendo, Peppone si ritrovò nella cupa notte padana, ma ormai era tranquillissimo perché sentiva ancora nel cavo della mano il tepore del Bambinello rosa. Poi udì risuonarsi all’orecchio le parole della poesia, che ormai sapeva a memoria. “Quando, la sera della Vigilia, me la dirà, sarà una cosa magnifica!” si rallegrò».

Natività, Gherardo delle Notti, Uffizi

Siamo tutti un po’ Peppone e don Camillo. Ogni epoca, ogni luogo, ogni esistenza porta con sé drammi, solitudini e paure. Da un lato tutto sembra congiurare per imprigionarci là dove nessuno può apparentemente raggiungerci, sotto il peso dei nostri timori o delle difficoltà che la vita presenta, “come in galera”. D’altro canto, sempre più spesso tutto ci invita in modo suadente ad edulcorare la realtà, a far finta di niente: se non c’è salvezza dall’ingiustizia e dal dolore, meglio allora – questo l’implicito – chiuderci nel confortevole guscio dei nostri piccoli desideri, meglio ripiegarci su ciò che è alla nostra portata, su piccole faccende che possiamo gestire.

Per questo mi commuove la scena immaginata da Guareschi. Esposti a un rischio personale, impotenti di fronte all’ingiustizia più radicale e all’incomprensione dei rispettivi schieramenti, Peppone e don Camillo si riscoprono uomini e amici nel gesto semplice e antico del dipingere misere statue di presepe. «“[…] questo è Peppone”, disse don Camillo toccando per ultimo il somarello. “E questo è don Camillo!”, esclamò Peppone prendendo la statuetta del bue e ponendola vicino al gruppo. “Bah! Fra bestie ci si comprende sempre” concluse don Camillo».

 È il mistero discreto del Dio che si fa carne: tutta la luce dell’universo condensata in un Bambino, così frammista alla nostra carne che parla di lei anche la povera concretezza di una statuina; così grande e regale da lasciarsi vedere e toccare. Come per assonanza mi tornano alla mente le parole che trapassarono il cuore di Tolkien quando, appena sedicenne, lesse un inno anglosassone a Cristo composto nel IX secolo. «Éala Éarendel engla beorhtast / ofer middangeard monnum sended»: “Salve fulgida Stella, il più lucente degli angeli/ inviata all’uomo su questa Terra di mezzo”. Non siamo lasciati soli nel fango della nostra pochezza, nell’insensatezza del male da cui nessuno è indenne.

Come osserva Rialti, di Tolkien geniale commentatore: «La Stella lucente non è rimasta nell’alto dei cieli, ma arde e brilla e cammina con noi. Il Cielo è sceso a salvare la terra e l’uomo non è stato lasciato solo a lottare contro il male. Il Fuoco segreto arde nel suo cuore, coinvolgendolo nel Suo amore per le cose e le creature, ed arde più o meno visibilmente nella sua mano». Arde con la potenza e l’irruenza di un combattivo don Camillo; arde come il calore gentile che un Bambinello di terracotta ha impresso nell’incavo di una manona.

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