Dalla parrocchia all’unità pastorale: nel contatto con gli infermi un aiuto a non perdere le radici sul territorio

Pubblichiamo questo contributo di riflessione inviato alla redazione dal direttore dell’Ufficio diocesano di Pastorale della Salute, il dottor Ivano Argentini.

Una delle poche realtà sopravvissute in parrocchia è l’oratorio… ma pure da qui non vengono segnali tranquillizzanti. Spiega don Giampaolo Ferri, responsabile di un Centro pastorale giovanile (Mantova): “Il mondo è cambiato e gli oratori non sono più quelli di una volta: gli spazi parrocchiali erano gli unici punti di ritrovo del paese, mentre oggi i luoghi di condivisione sono moltissimi e passano anche attraverso le piazze virtuali di internet. Anche il rapporto con la Chiesa è cambiato. Cinquant’anni fa partecipare alla Messa domenicale non era solo una scelta di fede, ma anche un rito sociale. Oggi le abitudini e l’approccio con la religione sono profondamente mutati e gli oratori stanno vivendo un momento di crisi, in cui però si intravedono germogli di rinascita”.

A Reggio Emilia non è diverso e il resto non è meglio. Nel 1950 la nostra diocesi aveva 429 preti e il rapporto prete/battezzati era 1/813. Oggi sono attivi 160-170 preti (di 240) e il rapporto è 1/3.327-3.131.
Nel 2014 avevamo ancora 314 parrocchie e 11 vicariati; oggi abbiamo 60 unità pastorali e 11 vicariati. La parrocchia tradizionale, creata dal Concilio di Trento sulla relazione efficace e proporzionata fra il parroco e una porzione numericamente adeguata di battezzati, non esiste più da alcuni anni. La proporzione prete/battezzati è stata una scelta fondamentale ed efficace: si consideri il paragone della quantità massima di pazienti consentiti a un medico di famiglia oggi (1.500), che evidenzia la necessità fisiologica di un numero ridotto di utenti per avere un servizio adeguato.

La parrocchia tradizionale, assieme a qualche danno, ha fatto un sacco di bene. Aveva un “modulo organizzativo a scacchiera” (riproduceva l’organizzazione statale provincie-comuni-frazioni). La parrocchia si è trovata inserita in un contesto socioculturale inizialmente agricolo e fu costretta ad adattare la sua pratica pastorale a tale realtà. Si è pensato che essa era fatta su misura per innervare la comunità dei fedeli nei gruppi sociali del posto.
In tal modo essa diventò il “mondo parrocchiale”, cioè una presenza ecclesiale che cercava di rispondere a tutti i bisogni della comunità locale. Per raggiungere tale scopo, essa si munì di tutte le istituzioni e opere necessarie (asilo, scuole, dispensari, oratorio, teatro, cinema, campi sportivi, ospizi…), indipendentemente dalle parrocchie vicine. Prese così corpo una cosiddetta “civiltà parrocchiale”. Questo processo di polarizzazione portò progressivamente a identificare la Chiesa con la parrocchia; a ritenere che si era della Chiesa quando si era della parrocchia.
Di qui il consolidarsi di certo “parrocchialismo” con i suoi assiomi ritenuti indiscutibili e intoccabili: “tutte le iniziative devono fare capo alla parrocchia”; “nulla va fatto senza riferimento alla parrocchia”.

Leggi l’articolo completo di Ivano Argentini su La Libertà del 7 ottobre



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