Custodire il fuoco

Per divertirsi non basta volerlo. Un bambolotto da quattro soldi può fare la felicità di un piccino per tutta una stagione, mentre un ragazzo più grandicello sbadiglierà davanti a un giocattolo da cinquecento franchi. Perché? Perché ha perduto lo spirito dell’infanzia”. Nel capolavoro di Georges Bernanos, Diario di un curato di campagna, questa riflessione è affidata alla viva voce dell’anziano parroco di Torcy a colloquio col protagonista. Parole che prendono vita quando osservo Teresa esplorare il mondo gattonando con gusto; o quando guardo i suoi fratelli mentre inventano partite di calcio con tappi di bottiglia e figurine o, ancora, ritagliano le immagini dei prodotti più diversi dai dépliant dei supermercati per giocare ai commessi (“Mamma, sei la nostra cliente migliore… in realtà mamma per il momento sei l’unica cliente. No aspetta, c’è anche la nonna Domenica: è meglio lei”. Sic transit gloria mundi).

È questo modo tutto particolare di guardare il mondo che Bernanos insegue, quando afferma che è necessario “consacrare la nostra vita ad acquistare lo spirito dell’infanzia, o a recuperarlo se l’abbiamo conosciuto, poiché è un dono dell’infanzia che, per lo più, non sopravvive all’infanzia stessa”. Una giovinezza del cuore che rende capaci di accettare fiduciosamente la dipendenza, di affidarsi serenamente a chi è più grande, di scoprire tesori anche dentro a realtà che uno sguardo più prosaico liquiderebbe come prive di valore.

Sta qui la provocazione: la vera obiezione alla felicità non è la tristezza, è la noia. Ed è ingenuo illudersi che quest’ultima sia prerogativa esclusiva di giovani disorientati in cerca di significato, o di chi – pur già avanti nella vita – abbia consapevolmente evitato qualsiasi responsabilità. In realtà lo sbadiglio indifferente evocato dal curato di Torcy assume infinite e paradossali forme nell’esistenza di ciascuno: anche di chi ha compiuto scelte, ha trovato un senso al proprio esistere, si è impegnato attivamente in un progetto. Lo constata amaramente in apertura di romanzo il protagonista, un giovane sacerdote fresco di ordinazione inviato come curato ad Ambricourt: “il mondo è divorato dalla noia. Naturalmente, bisogna riflettervi un po’ sopra per rendersene conto; la cosa non si sente subito. È una specie di polvere. Andate e venite senza vederla, la respirate, la mangiate, la bevete: è così sottile, così tenue che sotto i denti non scricchiola nemmeno. Ma basta che vi fermiate un secondo, ed ecco che vi copre il viso, le mani. Dovete agitarvi continuamente per scuotere questa pioggia di ceneri. Perciò, il mondo si agita molto”.

Sembrerebbe un controsenso: eppure è noia, sostiene Bernanos, quella che pulsa segretamente nelle pieghe di un certo nostro frenetico andare e venire; un tedio che veste i panni di un inquieto ribollio interiore ed esteriore piuttosto che quelli dell’apatia.

Tutti, prima o poi, ci troviamo su questo crinale. Da un lato quella capacità di slancio e di novità che solo gli uomini possiedono, unici nel mondo creato: bellezza e mistero della nostra fragilità capace di costruire e trasformare, di ricercare, di lottare per un bene vero, di generare. Dall’altro, lo scolorare di questo desiderio buono in una sottile frenesia di cambiamento (cambiare condizione, cambiare aspetto, cambiare lavoro o stile di vita, cambiare il giudizio altrui su di noi… l’elenco è infinito): un’impercettibile nota di fondo che ci agita molto, direbbe il curato di Ambricourt, e che offusca il nostro sguardo su quel che già c’è nell’attesa di un “meglio” che non arriva e che vorremmo darci da noi, alle nostre condizioni.

Per questo – come ricorda uno che non lo ha mai perso – ci occorre davvero ritrovare lo spirito dell’infanzia: se ne accorge Gabriel Syme, protagonista del chestertoniano L’uomo che fu Giovedì, nel corso di un duello di spada all’ultimo sangue con un nemico dai caratteri apparentemente soprannaturali, che sembra trascinare via con sé la luce del giorno. E non possiamo nasconderci che una certa opprimente, grigia banalità di giornate senza clamore e senza gloria può apparirci buia come il profondo nulla, assediarci come una spada puntata alla gola mentre invano ci affanniamo a scrollarcela di dosso. È in un momento come questo che Syme comprende. Così, mentre il suo avversario combatte in una scomposta frenesia, il giovane “raccolse tutte le proprie forze e tutto quello che c’era di buono in lui cantò alto nell’aria, come un vento alto canta tra gli alberi. Pensò a tutte le cose comuni in quella pazzesca storia, alle lanterne cinesi di Saffron Park, alla chioma rossa della ragazza nel giardino, agli onesti marinai che trincavano birra lungo il dock, ai suoi leali compagni lì accanto. Forse era stato scelto proprio lui come paladino di tutte quelle cose fresche e buone”. Come lo stesso Chesterton osserva in Grandi cose da nulla, solo uno spirito semplice, insieme baldanzoso ed umile, può riconoscere la freschezza e la bontà che si nascondono nelle piccole e misere trame delle nostre giornate: per suo tramite, “rivolgendo la nostra attenzione quasi accanitamente ai fatti”, potremo “indurli a trasformarsi in avventure, costringerli a consegnarci il loro significato e a realizzare il loro misterioso proposito”.

Nelle pieghe del quotidiano, fosse anche il più cocciuto e incolore, il fuoco arde. Occorrono occhi di bambino per riconoscerlo, e cuore di bambino per custodirne la fiamma.

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