Don Lorenzo Milani: un cristiano vero

Il 26 giugno del 1967 – cinquant’anni fa – moriva don Lorenzo Milani, a casa della madre. Due giorni prima, a chi lo aveva assistito, tra cui Eda Pelagatti, aveva detto: “Un grande miracolo sta avvenendo in questa stanza. Un cammello che passa nella cruna di un ago”. Il riferimento era alle sue origini borghesi di privilegiato, nato in una famiglia facoltosa di cattedratici agnostica ed ebraica da parte materna. Dopo la conversione al cattolicesimo, nell’estate del 1943, aveva rifiutato in modo radicale quel suo status sociale e per tutta la vita – il padre parla di una nuova nascita – ricordava quegli anni giovanili come quelli “vissuti nelle tenebre e nell’errore”.

All’avvocato Gatti che lo aveva difeso nel processo per apologia di reato per la presa di posizione pubblica sull’obiezione di coscienza contro un comunicato dei cappellani militari nei primi mesi del 1965 confessava: “Ci ho messo ventidue anni, per uscire dalla classe sociale che scrive e legge l’«espresso» e il «Mondo». Non devo farmene ricatturare neanche per un giorno solo. Devono snobbarmi, dire che sono ingenuo e demagogo, non onorarmi come uno di loro. Perché di loro non sono. Io da diciotto anni in qua non ho più letto un libro né un giornale se non ad alta voce con dei piccoli uditori. Nella chiesuola dell’élite intellettuale tutti hanno letto tutto e quel che non han letto fingono d’averlo letto”.
Tale rinuncia rimase di fatto una costante nella sua vita. Il 4 aprile 1967, due mesi prima della morte, scrisse al suo allievo Francuccio Gesualdi una lettera che rivela l’intensità di quella sua scelta: “Profitto del fatto che stasera sto meglio per scriverti io. Stasera ho provato a mettere un disco di Beethoven per vedere se posso ritornare al mio mondo e alla mia razza e sabato far dire a Rino: «il priore non riceve perché sta ascoltando un disco». Vedo invece che non me ne importa nulla. Volevo anche scrivere sulla porta «I don’t care più», ma invece me ne care ancora molto”.

Leggi tutto l’articolo di Federico Ruozzi su La Libertà dell’8 luglio

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