Nel mio blog del gennaio di quest’anno, intitolato ‘Eugene and Jack’, ponevo l’accento sul fatto che non è tanto necessario l’andare altrove per fare delle buone fotografie, quanto la misura in cui veniamo coinvolti in quello che decidiamo di fotografare e concludevo con la promessa di raccontarvi qualcosa sulla faccenda di Smith e Minamata.
William Eugene Smith (Wichita, 1918 – Tucson, 1978) inizia a collaborare giovanissimo con il quotidiano della sua città ed in pochi anni approda alla redazione di Life, allora il più importante settimanale di informazione degli Stati Uniti. La sua vita è ricca di aneddoti in cui prevale sempre l’amore per la fotografia e la verità – il titolo di uno dei suoi libri più famosi si intitola infatti ‘Usate la verità come pregiudizio’ – amore che lo porta spesso a scrivere parole grosse nelle sue lettere agli amici e ad urlarle in faccia ai vari direttori con cui lavorava e che volevano tagliare una sua immagine per esigenze di impaginazione o non pubblicare quella che lui riteneva la più significativa per la storia che era stato chiamato a raccontare con la macchina fotografica. Tutto dipendeva dal fatto che quando accettava di realizzare un servizio su un determinato avvenimento, lui ci si calava dentro anima e corpo proprio nel vero senso della parola.
Un esempio: nel 1954 abbandona la rivista Life dopo l’ennesimo litigio con i capi e, qualche tempo dopo, viene contattato per realizzare un libro fotografico sulla città di Pittsburgh in Pennsylvania. Questa, adagiata sulle sponde del fiume Ohio, con la scoperta di importanti giacimenti di carbone, diviene una delle più importanti città industriali del mondo, specie nel campo siderurgico, il che le procura presto il soprannome di Steel City (città d’acciaio), tanto che ancora oggi la squadra di football della città si chiama Pittsburgh Steelers. La richiesta è quella di realizzare un ritratto di una città bella, moderna e soprattutto vivibile per le persone, in soldoni di raccontare solo una parte della verità, basta andare a vedersi qualcosa su come era inquinata dalla varie fabbriche la Pittsburgh di allora per rendersi conto di come suonasse falso l’intendimento dell’incarico. Ovviamente lui non ci sta, vuole che le sue immagini raccontino tutta la verità e non solo una parte e, come spesso ha fatto nella sua carriera, finisce per litigare con il committente. Smith produrrà 17.000 negativi e 11.000 stampe in alcuni anni di lavoro, il tutto autofinanziato e che lo condusse quasi alla bancarotta, il motivo sta nel fatto che a lui non interessava produrre un libro, ma raccontare la città in tutti suoi aspetti, positivi o negativi che fossero. Il progetto, di cui lui non era mai soddisfatto, finì con la pubblicazione di 88 fotografie presso il Photography Annual nel 1959, e successivamente nel 1964 con il libro stampato finalmente da Stefan Lorant (il committente che si era subito defilato) dal nome Pittsburgh: The Story Of An American City, ma contenente non solo le immagini di Smith, ma anche quelle di altri fotografi.


Ma veniamo alla faccenda di Minamata.
La malattia di Minamata è stata scoperta per la prima volta, nella città del sud del Giappone, nel 1956. Fu causata dal rilascio in mare di metilmercurio da parte dell’industria chimica Chisso Corporation dal 1932 al 1968. Questo composto chimico, altamente tossico, si accumulò nei molluschi, nei crostacei e nei pesci della baia di Minamata, entrando nella catena alimentare degli abitanti e causando così un avvelenamento da mercurio che portò a deformità, malattie e decessi che continuarono per più di 30 anni. Nel 1971 Smith si trasferisce con la moglie nella cittadina e documenta per tre anni la vita dei pescatori e degli abitanti, partecipa alle manifestazioni di protesta contro i proprietari, venne anche picchiato, e alle riunioni con i responsabili dell’azienda sotto accusa che non volevano sentire parlare delle loro responsabilità, fotografa la vita dei malati e delle persone che li accudivano e i difficili percorsi di rieducazione, in altre parole diventa uno di loro immergendosi totalmente ‘anima e corpo’ in questa realtà. La cosa straordinaria è che Smith non si preoccupa minimamente di realizzare delle buone fotografie, ma piuttosto di dare voce all’ingiustizia subita, solo allora le buone fotografie verranno, perché fatte con la mente e l’occhio collegati al cuore.


“La fotografia – dice Smith commentando il suo lavoro su Minamata – è una piccola voce, nel migliore dei casi. Tuttavia qualche volta, solo qualche volta, una fotografia o una serie di fotografie possono farci prendere coscienza di un avvenimento. Molto dipende dall’osservazione; alcuni possono trarre un’emozione capace di farli pensare. Alcuni, forse molti, fra di noi possono venir provocati a usare la ragione, a riportare sulla strada giusta qualcosa che era sbagliato e possono addirittura consacrarsi alla ricerca di una cura per una malattia. Altri possono forse provocare più comprensione e più compassione per quelle vite che sono estranee alle nostre. La fotografia è una piccola voce. È una voce importante nella mia vita, ma non l’unica. Io credo nella fotografia. Se è ben concepita, talvolta funziona”.
Grazie Eugene, che continui ad essere così!
Per commentare la rubrica scrivi a giuseppemariacodazzi@laliberta.info