Platone e la condanna della poesia

Bisogna ricordare prima di tutto – quando si parla della condanna della poesia – che tale condanna non nasce all’interno di un discorso di estetica ma all’interno di un discorso di politica. Socrate e gli altri stanno discutendo della costruzione di uno Stato ideale, lo Stato giusto per eccellenza, nel quale i produttori sono dediti al lavoro, i filosofi sono al governo e i guerrieri difendono la polis con fermezza. Il discorso ha poi un riscontro morale perché riguarda anche l’anima e cioè il singolo individuo. È in questo contesto che Platone, il quale altrove – ad esempio nel Fedro – aveva riconosciuto nella poesia uno dei “doni del delirio”, esprime il suo giudizio negativo.

Degli dei, della morte e degli eroi
Il primo “luogo” della polemica platonica è il II libro di Repubblica. Si parla della educazione dei guerrieri che, vista la perfetta corrispondenza fra la polis e l’anima, corrispondono all’anima “passionale”.
Cerchiamo di ripercorrere l’intera questione.
Omero, Esiodo e i tragici (ma prima di tutto Omero) danno – secondo Socrate, portavoce e alter-ego di Platone – un’immagine inadeguata, anzi scorretta, della divinità: presentano cioè gli dei come cause di mali, autori di malvagità, ma anche propensi alla metamorfosi e alla menzogna. Socrate fissa, dunque, le leggi a cui, invece, i poeti si dovrebbero ispirare. La prima è che la divinità, essendo buona, non può essere causa di male, ma solo di bene. Per il male occorrerà trovare “altra causa”. La seconda legge vuole che la divinità, essendo perfetta, non possa mentire né trasformarsi in ciò che, comunque, uomo o animale, sarebbe meno perfetto di lei.
Più avanti, in uno dei tanti ritorni sull’argomento, Socrate rimprovererà ad Omero di aver dato un “cattivo esempio” ai giovani rappresentando uno Zeus intemperante e preda della passione: il dio, infatti, è così colpito dalla bellezza della moglie da non voler nemmeno raggiungere la stanza da letto; e dichiara di essere innamorato ancor più di quando “avevano avuto il primo rapporto intimo «all’insaputa dei genitori»”.

All’inizio del libro III, la critica ai poeti (Omero in testa) continua: essi non solo danno una rappresentazione scorretta della divinità, ma anche una rappresentazione inadeguata, e spaventosa, della morte e dell’aldilà. Tutto ciò non si addice alla parte passionale dell’anima né ai guardiani dello Stato, che devono affrontare il rischio di morte con coraggio e serenità. Del resto, anche la rappresentazione degli eroi è diseducativa. L’eroe non dovrebbe essere rappresentato preda dell’ira o accecato dalla passione o vinto dal pianto o colto da riso smodato (il riferimento è ad Achille, l’eroe dell’Iliade, e alle sue note vicende): l’eroe dovrebbe essere saggio, coraggioso e temperante.
Da quanto detto, appare evidente che la critica non è tanto rivolta alla poesia quanto ai poeti e all’uso, immorale e diseducativo, che essi hanno fatto del loro talento. Il discorso sui poeti diventa così in Platone anche la critica agli “strumenti di comunicazione di massa” della sua epoca.

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