La «corsa» di don Simone

Don Gulmini, missionario in Cile, racconta la sua storia

Incontro don Simone Gulmini al termine del convegno missionario dei giorni scorsi, ci sediamo intorno a un tavolo in una delle sale del nuovo oratorio della parrocchia del Sacro Cuore. È l’occasione per conoscerlo meglio e farmi raccontare la sua recente esperienza missionaria a Santiago del Cile, in una delle comunità che la Fraternità dei Missionari di San Carlo Borromeo ha in giro per il mondo.
Simone nasce il 12 ottobre del 1974 all’ospedale di Bologna, il papà lavorava come marmista a San Giovanni in Persiceto, ma il luogo della sua infanzia è Dogato, un paese di mille anime a metà strada fra Ferrara e le Valli di Comacchio, circondato da una terra difficile e umida, terreno di caccia degli Estensi fino a che ci sono stati e poi lasciata a sé stessa, finché alla metà dell’Ottocento si decise di bonificarne il territorio per favorire l’agricoltura.
La famiglia si trasferisce proprio lì per coltivare la terra e lì Simone ci cresce figlio di contadini in mezzo a contadini, con l’amore per la terra e la natura che gli fiorisce dentro.

A scuola fa fatica e, appena lo studio lo lascia libero, preferisce correre nei campi con zappa e rastrello ad aiutare il papà, e la domenica la Messa:
“Di venti ragazzi, rimasi l’unico che continuò ad andare a Messa senza mai fare il chierichetto o il lettore. Semplicemente andavo e mi fermavo in fondo alla chiesa. Ciò che mi spingeva non erano i miei familiari, a parte mia nonna, ma erano soprattutto le parole di quell’anziano prete, don Antonio. In esse percepivo qualcosa di buono e di vero. Sentire parlare di un uomo che aveva dato la vita per me e per il mondo, e quindi che mi amava e continuava ad amarmi, era cosa che arrivava dritta al cuore. Era il primo segno della mia vocazione”.

Leggi tutto l’articolo di Giuseppe Maria Codazzi su La Libertà dell’8 aprile

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