Hine il sociologo che diventò fotografo

“Se sapessi raccontare una storia con le parole, non avrei bisogno di trascinarmi dietro una macchina fotografica.”

Così disse una volta Lewis W. Hine (1874-1940), che la sociologia (la studiò a Chicago, alla Columbia University e a New York, dove la insegnò per diversi anni) fece diventare fotografo.

In effetti la scienza di cui si occupava lo portò spesso a contatto con le reali condizioni di vita dei lavoratori che, nei primi anni del ‘900, dovevano fare i conti con la seconda rivoluzione industriale, la quale, iniziata a metà del secolo precedente, prometteva, si diceva, uno sviluppo dell’umanità tale che nella realtà avrebbe superato poi le fantasie più sfrenate, stendendo quest’ombra dei suoi sogni un po’ dappertutto nel mondo. Solo che a rendere reali questi sogni c’era una moltitudine di braccia e gambe, che si alzava la mattina presto e andavano a letto tardi la sera, dopo aver passato tutto il giorno a lavorare in ambienti che, e torniamo alla frase del nostro amico, era difficile raccontare ed allora era meglio impressionare una lastra e basta, così i conti li facciamo davanti ad essa.

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Lewis W. Hine, ragazzi in una miniera di Carbone in Pennsylvania, 1911)

Non è il caso di affibbiare ad Hine delle etichette, fotografo sociale, pioniere del fotogiornalismo di denuncia ecc. ecc., questo lasciamolo fare agli storici o ai critici della fotografia, io non lo sono e me ne guardo bene, il fatto è che ho sentito immediatamente una grande affinità per la sua fotografia fin da quando, nel lontano 1980, acquistai alla libreria Vecchia Reggio il catalogo ‘Men at work’, ai tempi in cui il buon Ivo Gazzini, faceva arrivare dagli Stati Uniti dei libri altrimenti introvabili nelle altre librerie di Reggio.

Ma lasciamo perdere queste malinconie che interessano, si fa per dire, solo me e pochi altri, e veniamo al nocciolo della questione, che sta proprio nel significato semantico della frase con cui ho iniziato questo pezzo.

Eh, che paroloni! calma, volevo solo dire di andare un po’ più in là del significato apparente ed evidente della nostra frasetta iniziale.

Un’immagine racconta molto di più di mille parole (la fotografia non sa mentire, lo so, mi ripeto), questo è chiaro, ma non lo era sicuramente anche ai tempi del nostro socio-fotografo. In effetti a quei tempi i fotografi erano più impegnati a far concorrenza alla pittura, tant’è che impiegavano ogni tecnica possibile per far diventare la stampa quanto più simile ad un dipinto, andatevi a vedere qualcosa sulla rivista Camera Work che usciva negli Stati Uniti in quegli anni e vi renderete conto di quanto vi dico. Al nostro Hine interessa invece rendere la realtà semplicemente come è, davanti ad una sua fotografia non ci sono dei se e dei ma, si può solo rimanere scandalizzati o perlomeno imbarazzati, ogni riferimento ai se ed ai ma dei tanti che si riempivano le tasche con il sudore della fronte altrui, dove fra gli altrui c’erano anche e soprattutto una miriade di ragazzini/e, è casuale.

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Lewis W. Hine, cotonificio, South Carolina, 1908

L’indagine-denuncia del fotografo americano richiamò (sarebbe meglio dire risvegliò) l’attenzione degli americani sullo sfruttamento del lavoro minorile, riuscendo a  far votare leggi fondamentali a favore della tutela del minori.

Fu una vittoria importante, che assegnò per sempre alla fotografia la possibilità di risvegliare le coscienze, come accade a volte ancora oggi.

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Nilufer Demir, Aylan Kurdi, spiaggia di Bodrum, Turchia 2015

Anche se oggi, citando ancora una volta Lewis Wickes Hine: “La fotografia non sa mentire, ma i bugiardi sanno fare le fotografie.”

Con buona pace di Photoshop.

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