La fragilità e la malattia come strade al bene

La fragilità e la malattia come strade al bene. Discorso alla città nella solennità di san Prospero

Reggio Emilia, Basilica di San Prospero 24 novembre 2016

Carissimi fratelli e sorelle,

ogni anno la festa di san Prospero è un’occasione per me, pastore di questa Chiesa, per leggere assieme a voi ciò che sta accadendo nella nostra società e perciò nelle nostre famiglie, per aiutarci in un discernimento e in un giudizio.

Il paradosso dell’esistenza

Quest’anno vorrei partire da una considerazione che ritengo fondamentale per guardare con verità ai grandi temi del nostro presente: l’uomo, ogni uomo, desidera la vita, trova dentro di sé un inestinguibile desiderio di gioia e, nello stesso tempo, una passione a condividere tale gioia con gli altri. Eppure, ugualmente, non può non constatare nelle sue giornate la presenza di una contraddizione. Essa è rappresentata dalla malattia, dalle divisioni, dalla vecchiaia, che sono come un’anticipazione della morte a cui si guarda con paura. Si vorrebbe che tutto ciò non esistesse.

In buona parte il male e il dolore sono provocati dalla cattiveria dell’uomo, dalla sua sete di denaro e di potere, dalla sua superbia, dall’orgoglio, dal principe delle divisioni che è Satana. Ma molti mali non dipendono direttamente da noi e non li possiamo cancellare definitivamente. È lodevole e va sostenuta in ogni modo la battaglia che l’uomo compie contro le malattie, ma è un sogno illusorio pensare che possano totalmente essere debellate. Per quanto possiamo allungare l’aspettativa di vita, per quante cure possiamo avere del nostro corpo, non è possibile cancellare la malattia, l’invecchiamento e la morte. Eppure questo non è più evidente a tutti.

Il rifiuto del limite e le sue conseguenze nella cultura contemporanea

È paradossale, perché tutti facciamo esperienza del limite, della finitudine che l’essere creato porta inevitabilmente con sé. Eppure, tale finitudine sembra essere spesso considerata soltanto come un “male” che può essere eliminato. La differenza sessuale, nella quale ognuno si trova inevitabilmente collocato; lo stretto legame tra sessualità e fecondità; la vecchiaia, con il venir meno delle forze fisiche e mentali, sono “limiti” di cui si invoca o di cui si desidererebbe un definitivo superamento. Le teorie che fanno della differenza sessuale un portato semplicemente culturale, senza radicamento nella struttura profonda della persona umana; la fecondazione artificiale con annessa la pratica dell’utero in affitto; l’aborto volontario e l’eutanasia, costituiscono segnali di rifiuto del limite da parte di ampi settori della cultura contemporanea.

Il rifiuto del limite, che caratterizza la nostra epoca storica, è all’origine del tentativo di “ricreare” la realtà secondo un progetto da superuomini; e, quando ciò non sia possibile, di eliminare, o far finta che non esista, ciò che nella realtà è faticoso e sgradevole. Da tempo molti psicologi hanno iniziato a parlare per la nostra cultura e per la nostra società di una deriva narcisistica, che comporta un’incapacità di affrontate il dolore, gli ostacoli e le sconfitte, insieme a un disinteresse per gli altri e per l’ambiente circostante.

In questo contesto culturale, il criterio per misurare il valore della persona umana diviene la capacità di garantire certe prestazioni, di corrispondere agli interessi di altri o di rimanere all’interno di determinati standard di qualità della vita. Nell’enciclica Laudato sii, papa Francesco scrive: «la cultura del relativismo è la stessa patologia che spinge una persona ad approfittare di un’altra e a trattarla come un mero oggetto, obbligandola a lavori forzati, o riducendola in schiavitù a causa di un debito. È la stessa logica che porta a sfruttare sessualmente i bambini, o ad abbandonare gli anziani che non servono ai propri interessi. È anche la logica interna di chi afferma: “lasciamo che le forze invisibili del mercato regolino l’economia, perché i loro effetti sulla società e sulla natura sono danni inevitabili”». La cultura del relativismo si identifica sempre di più come “cultura dello scarto”, secondo un’altra espressione efficace del Santo Padre.

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Celebrazione di San Prospero 2015 – immagine di Archivio-

Accanto a tutto ciò si manifesta, grazie alle possibilità crescenti offerte dalla scienza e dalla tecnica, una sorta di delirio di onnipotenza in base al quale l’uomo pensa di potere “costruire” altri uomini a proprio piacimento, scegliendo il sesso, il colore dei capelli o degli occhi ed eliminando coloro che potrebbero essere malati.

Per alcune correnti di pensiero, la persona è tale per le funzioni che manifesta e non per la propria natura intrinseca che è apertura all’infinito e, quindi, relazione con Dio e con gli altri. Laddove – si dice – l’uomo non mostri di avere quelle doti che dovrebbero competergli, esso può divenire oggetto di manipolazione o di eliminazione. Scriveva san Giovanni Paolo II: «Siamo qui di fronte a uno dei sintomi più allarmanti della “cultura di morte”, che avanza soprattutto nelle società del benessere, caratterizzate da una mentalità efficientistica che fa apparire troppo oneroso o insopportabile il numero crescente delle persone anziane e debilitate».

Quando viene meno la certezza che Dio esiste, che vi è un disegno buono per la creazione, che noi siamo creature deboli e ferite, ma destinate alla vita eterna, quando tutto ciò si cancella, l’uomo corre la tentazione di mettersi al posto di Dio, di farsi padrone della vita e della morte in una lotta disperata, titanica.

L’uomo che non riconosce più Dio, prima cerca di isolare chi è malato, considerato come improduttivo e meno uomo. Poi cerca di cancellare anche la realtà della morte. La dispersione delle ceneri è un segno di questa volontà. Il corpo, così tanto idolatrato in vita, fonte di enormi consumi per la sua bellezza e la sua salute, deve essere allontanato dalla nostra vista dopo morte perché metterebbe in discussione tutte le false certezze che l’uomo si è costruito e su cui ha fondato la sua vita. Rifiutandosi di percorrere la strada al senso dell’esistenza a cui la nostra fragile creaturalità ci introduce, rifiutandosi di prendere sul serio le domande ultime che sono costitutive del nostro essere, l’uomo non riesce più a reggere la memoria di una separazione, non riesce più ad affrontare un sacrificio poiché non ne ha le ragioni.

Riguardo all’esperienza della malattia e della morte, che segna la vita di ciascuno di noi, la cultura contemporanea sembra aver rinunciato a formulare qualsiasi ipotesi di senso. Da più parti vengono avanzate proposte per l’eliminazione, non solo di coloro che si trovano in fase terminale, ma anche di coloro che patiscono malattie fisiche e psichiche non adeguate a una, così detta, “vita degna di essere vissuta”. Non bisogna sottovalutare il fatto che l’introduzione di leggi favorevoli all’eutanasia in diverse nazioni europee, sulla scorta di rivendicazioni che mettono capo a presunti diritti individuali, ha comportato nel tempo una diminuzione della percezione della dignità della persona umana, fino al punto da rendere le pratiche eutanasiche indipendenti dalla stessa volontà di coloro che dovrebbero subirle. È il caso, ad esempio, dell’eutanasia praticata sui neonati o sulle persone gravemente disabili. Per non parlare, poi, di quella “eutanasia nascosta”, come l’ha chiamata il Papa, che viene praticata sugli anziani, anche in assenza di legislazioni permissive in tal senso.

Si avvera ciò che ha scritto san Giovanni Paolo II: «la vita del più debole è messa nelle mani del più forte; nella società si perde il senso della giustizia ed è minata alla radice la fiducia reciproca, fondamento di ogni autentico rapporto tra le persone».

Il valore positivo del limite

Non è forse questa la strada per una vita più disumana? Quando l’uomo vuole diventare costruttore di se stesso, come fosse una macchina, quale uomo ne uscirà?

Dobbiamo tornare all’evidenza che sta al fondamento della vita, della possibilità che essa sia lieta anche dentro le difficoltà e possa perciò attraversarle. Non siamo noi che ci siamo dati l’esistenza; fin dal primo istante di vita ognuno di noi parla, col suo stesso esistere, del suo dipendere da qualcun altro.

Lungi dall’essere soltanto un male, quindi, il limite e la finitudine sono gli indizi del nostro essere creati, del nostro essere pensati e voluti da Dio, nella nostra irripetibile unicità. La vita umana, nella sua dimensione spirituale e nella sua dimensione corporea, è indisponibile a qualunque tentativo di manipolazione e di soppressione da parte di altri, poiché non è di proprietà di alcuno, se non del suo Creatore che l’ha posta e la conserva nell’essere. La persona umana non ha alcun diritto di togliersi la vita volontariamente o di chiedere che altri ne provochino la morte.

Sono consapevole della drammaticità di alcune situazioni nelle quali la solitudine, lo scoraggiamento e il dolore possono portare a percorrere strade che, in condizioni diverse e più favorevoli, non si sarebbe tentati di imboccare. Ma la stessa legislazione, permettendo certe pratiche, concorre a creare una mentalità secondo la quale ciò che è lecito dal punto di vista legale sarebbe anche moralmente permesso.

Ciò non toglie che ogni intervento terapeutico sproporzionato nei confronti del malato sia da considerare come un accanimento lesivo anch’esso della dignità della persona. La proporzionalità dell’intervento medico rispetto alle condizioni concrete del paziente dovrà sempre essere valutata in scienza e coscienza da parte del medico e del personale sanitario, in accordo, se possibile, con il malato e con la famiglia, in modo tale da non configurare né un’omissione, né un intervento sproporzionato. Per questo il ruolo dei medici è fondamentale. Essi sono chiamati ad assistere non solo il corpo nella sua componente puramente materiale, ma anche l’anima che si manifesta in quel corpo. Scriveva san Giuseppe Moscati: «Noi medici, in momenti supremi, ricordiamoci di avere di fronte a noi, oltre che un corpo, un’anima, creatura di Dio». Il medico che si trovi di fronte a legislazioni che favoriscono l’eutanasia, in qualunque stadio dell’esistenza umana, è chiamato all’obiezione di coscienza, come estrema difesa di fronte al male.

Un mondo più umano

L’essere limitato, malato, debole, ferito, non è una condizione che cancella in noi l’umano, ma, all’opposto, che lo svela e che richiede l’attenzione e la cura verso gli altri. Si è veri uomini non quando si cancellano la malattia e la morte, ma quando le si accettano come parte stessa della vita e si vede in esse un grande grido alla condivisione e alla vicinanza. Nello stesso tempo, la limitatezza e la morte, proprio in quanto fanno violenza al costitutivo desiderio di vita e di salute, sono la strada maestra attraverso cui può rivelarsi il destino eterno dell’uomo. Soltanto in esso ogni esistenza può trovare la sua ultima giustizia. La nostra fragilità rivela altresì che il più grande compito affidato all’uomo è prendersi cura dei propri fratelli, affermando la dignità di ogni vita umana, qualunque siano le condizioni della sua esistenza.

In questi anni passati a Reggio ho potuto incontrare un numero veramente sorprendente di famiglie e comunità che ospitano e si prendono cura di bambini, adulti e anziani malati, abbandonati, disadattati, riconoscendo in quelle presenze non un’umanità degradata, ma un’umanità sofferente, che ci aiuta a guardare con più verità e realismo al nostro destino personale e comune e a ciò che costituisce l’essenza dell’essere umano.

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La copertina del libretto distribuito in occasione della solennità di San Prospero. Il libretto verrà distribuito tra agli abbonati a La Libertà cartacea nel mese di dicembre

È in fondo una grande paura ciò che spinge a rifiutare la vita che non si è programmata o che non è come la si vorrebbe. La paura di non poterla governare, dominare entro gli schemi di prevedibilità che noi stabiliamo. Una grande paura sembra dominare l’uomo di oggi di fronte all’esistenza. Anche perché egli è lasciato solo.

Voglio qui alzare la mia voce affinché tutto il possibile sia fatto perché le persone malate possano trovare una vera accoglienza nei luoghi di cura. Perché sia facilitata, con adeguati sostegni, la presenza dei malati nelle loro famiglie. Perché gli anziani soli possano essere accolti in luoghi dignitosi e soprattutto aiutati a vivere nelle loro case.

Una società che non fa nulla per aiutare l’accoglienza della vita non desiderata, perché i malati terminali possano ricevere cure adeguate senza essere guardati come oggetti da eliminare, può dirsi ancora veramente una società umana? L’aiuto alle famiglie perché possano accogliere e prendersi cura diventa uno snodo fondamentale di questo umanesimo, così come l’aiuto a quelle comunità, a quelle cooperative sociali che intervengono là dove la famiglia non può svolgere questo compito.

Il venir meno di un certo modello familiare ha comportato anche l’abbandono o l’affidamento degli anziani a strutture nelle quali talvolta essi non vengono accuditi e rispettati, come purtroppo la cronaca recente ci ha abituato a constatare. Papa Francesco nota come a fronte di innegabili progressi nel campo medico, «tuttavia, per alcuni aspetti sembra diminuita la capacità di “prendersi cura” della persona, soprattutto quando è sofferente, fragile e indifesa. In effetti, le conquiste della scienza e della medicina possono contribuire al miglioramento della vita umana nella misura in cui non si allontanano dalla radice etica di tali discipline».

La rivoluzione portata dalla fede

Ciò che in questi anni del mio episcopato più mi ha colpito e mi ha fatto toccare con mano la profondità della rivoluzione portata dalla fede è stato entrare in una Casa della carità, nel nostro Hospice di Montericco o in una famiglia in cui ho trovato persone che vivevano alla presenza di un mistero che esse servivano come potevano. Nel mistero della persona malata, disabile, segnata da infermità che la limitano talvolta in modo radicale nelle sue stesse capacità espressive, c’è tutto il mistero dell’uomo e anche il mistero di Dio, dell’uomo ferito che anela alla salvezza e del Dio ferito dal grido dell’uomo che manda suo Figlio a curvarsi sull’umanità caduta per risollevarla e per mostrarle il destino di luce che l’attende.

Nel prendersi cura dell’altro si rivela il livello più alto dell’amore e perfino la bellezza di un corpo martoriato. Mi ha scritto di recente un medico: «vedendo le mamme dei nostri bambini durante le fasi più gravi o terminali di una malattia, mi è sembrato di capire perché Maria sia rimasta sino alla fine ai piedi della croce. Assistere, stare vicino, è il gesto più vero e carico di significato, è il gesto terapeutico più importante».

Nella malattia, nel dolore e nella morte l’uomo può scorgere un senso che è visibile soltanto nel mistero di Dio. Infatti, soltanto chi ha creato il nostro corpo mortale e ci ha posti nell’essere conosce le ragioni di tutto ciò che accade.

Per questo, benché quanto detto finora sia condivisibile da ogni uomo e da ogni donna a cui sta a cuore il destino dell’umanità, benché quindi si tratti di un discorso autenticamente laico, al di là di ogni fede e di ogni credo personali, occorre riconoscere che, come insegna il Vaticano II, «solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo […]. Cristo, […] rivelando il mistero del Padre e del suo Amore, svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione».

Tutta la vita dell’uomo, con le sue grandezze e le sue contraddizioni, quando non è censurata rivela alla ragione e al cuore il nostro costitutivo bisogno che qualcuno ci salvi, che qualcuno ci mostri il senso di tutto, della gioia come del dolore, del sacrificio come dell’esultanza. Non un senso astratto, consolatorio, ma un significato che ognuno possa verificare nell’esperienza e che rispetti la dignità della nostra ragione.

Cristo è venuto a rivelarci chi è l’uomo e il suo destino eterno. Per questo i cristiani hanno una grande responsabilità di fronte al mondo.

«L’uomo – scrive Giovanni Paolo II – rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente […]. L’uomo che vuol comprendere se stesso fino in fondo […] deve, con la sua inquietudine e incertezza ed anche con la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo. Egli deve, per così dire, entrare in Lui con tutto se stesso».

Con l’Incarnazione e la rivelazione del destino eterno dell’uomo è entrata nel mondo una vera rivoluzione anche nel modo di concepire il corpo. Per questo motivo la storia della Chiesa è costellata di intraprese che hanno come fine ultimo la misericordia corporale. Gli stessi ospedali nascono dalla tradizione cristiana proprio per questo convincimento profondo.

Il Verbo di Dio che si fa carne è la testimonianza concreta della preziosità del corpo umano, in qualunque condizione esso si trovi. Di questa preziosità parla san Bernardo dicendo: «per l’anima che ama Dio il suo corpo infermo ha valore di vita, e lo ha sia quando è morto, sia quando è risuscitato. […] Un compagno certamente buono e fedele è dunque la carne per uno spirito virtuoso: essa gli giova anche quando pesa su di lui».

Nell’esperienza dell’essere amati oltre ogni misura e ogni merito, esperienza che ci è donata nella vita, morte e resurrezione di Cristo e che continua nella vita della Chiesa, è possibile quella gratuità che ci fa vedere nell’altro la persona del Salvatore. Il malato, il sofferente è veramente Gesù. Nello stesso tempo egli ha bisogno di Gesù, ha bisogno di sapere che Cristo attende tutti noi. Egli sostiene e rende possibile l’essere accanto al malato. Quando tutte le nostre energie finirebbero, la certezza che nulla è perduto nella vita ma tutto viene ritrovato in lui dà valore e peso ad ogni sacrificio per l’altro.

+ Massimo Camisasca